Il romanzo prende spunto da una storia vera, quella di Vivian Maier. Una fotografa nata nel 1926 a New York e morta nel 2009, una donna che visse facendo la tata e che ha visto il successo come fotografa solo anni dopo la morte.
Dai tuoi occhi solamente
di Francesca Diotallevi
Neri Pozza, 2018
pp. 207
€ 16,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Maloof iniziò a far conoscere Vivian pubblicando in internet gli scatti e ottenendo un successo così elevato da decidere di togliere le foto dal web per muoversi in modo serio e organizzare una più degna diffusione delle opere. Attraverso mostre e retrospettive, Vivian diventa così un personaggio mondiale.
Nel libro come nella vita, Vivian ha avuto un’infanzia molto difficile, divisa tra continui spostamenti tra l’America e l’Europa e caratterizzata da un’estrema solitudine. La fotografia ha rappresentato l’unione tra lei e il mondo, un occhio sulla vita e sulle emozioni degli altri: «Le foto non mentono sulle storie che raccontano, nemmeno le più artificiose» (p. 14).
Molte le tematiche trattate nel romanzo, ma l’aspetto centrale è costituito dalla “invisibilità” di Vivian, una donna sola, un’anima che l’autrice Francesca Diotallevi ha saputo porre in evidenza ripercorrendo la vita di Vivian: una esistenza caratterizzata da assenze, in tutti i sensi del termine.
La Maier è una donna la cui personalità è il risultato del suo passato, delle sue ferite e delle cicatrici mai risolte completamente.
Vivian è un personaggio del quale si sta parlando molto solo ora, per anni è stata sconosciuta al grande pubblico.
Fino al 2017 nemmeno io ne sapevo dell’esistenza. A Monza un’amica andò a una piccola mostra dedicata a Vivian e mi disse che aveva visto foto incredibili, ma che era rimasta colpita soprattutto dalla storia di questa donna che non aveva mai sviluppato i suoi rullini (circa 150.000 fotografie).
Incuriosita ho visitato la mostra e cominciato a cercare documentazioni su Vivian. Ho scoperto che scattava un rullino al giorno con la Rolleiflex, una macchina che consente di scattare in formato quadrato, le foto sono come si vedono dal pozzetto. Peculiare caratteristica di questa macchina è che si tiene all’altezza dello sterno e non davanti al volto. Questo consentiva a Vivian di non essere sempre vista mentre immortalava le persone nei suoi scatti.
Vivian rubava istanti, foto scattate all’esterno e a sconosciuti. Sono rimasta così colpita che ho deciso di continuare a fare ricerche e poi di scriverne.
Cosa ti ha colpito delle sue foto?
Sono fotografie che parlano, non solo delle persone ritratte, ma anche di noi. Appena le ho viste mi è sembrato che si muovessero, persone vive e vivide, pose spontanee. All’inizio mi sono sorti molti dubbi legati al fatto che lei avesse dell’invisibilità la sua cifra, Inoltre non ci sono biografie complete. È morta sola, senza familiari, senza parenti, senza nessuno che l’abbia conosciuta per davvero.
Maloof ha fatto un’operazione interessante, ha cercato tutto di lei, tutte le foto, ed è partito alla ricerca delle famiglie per le quali aveva lavorato. Queste persone gli hanno confessato che non sapevano chi fosse: si prendeva cura dei bimbi, chiedeva una chiave per chiudere la sua stanza, ma non diceva nulla di se stessa. Questo suo tenere lontani gli altri era al limite del patologico, non concedeva mai nulla del suo essere.
Il libro ci fa scoprire il vissuto di Vivian, in primis il rapporto con la madre: «Il passato non si dimentica , ha radici inestirpabili che si intrecciano al presente, definisce ciò che siamo, o ciò che siamo diventati. Per Vivian il passato era una stanza piena di specchi o ombre, di riflessi che le restituivano, incessantemente, i volti delle donne che l’avevano plasmata; una su tutte sua madre» (pg. 117).
Quando ho deciso di scrivere il libro ho letto tutto quello che ho trovato su di lei ed è emerso il fatto che Vivian è stata formata da tre donne: la madre e tre figure femminili.
La sua è stata una infanzia traumatica e infelice e questo fa capire come lei sia diventata così chiusa, al punto da far avvicinare a se stessa solo i bambini con la loro innocenza e purezza. Lei negli altri vedeva sempre il male.
Sono andata a scavare nel suo passato: è stata una bimba piccola negli anni ’20, la madre si era separata e lei era rimasta con la madre (non avrebbe mai rivisto il padre). Una madre che a sua volta arrivava da un passato difficile, figlia di una donna che l'aveva lasciata alla sorella per emigrare negli Stati Uniti. Una donna scontenta, arrabbiata, inquieta che ha trasmesso questo dolore alla figlia, una donna incapace di amare per quello che ha subito e vissuto. E, come se non bastasse, la madre di Vivian aveva già un figlio, che aveva lasciato ai nonni paterni e non avrebbe rincontrato per anni.
Elena Sassi con l'autrice Francesca Diotallevi |
Inserire Frank è stato un escamotage. Il libro è ambientato nel ‘54 - ’55 e di questi anni nella documentazione trovata non c’è nulla, quindi ho creato una famiglia fittizia. Ho preso spunto da una famiglia alla “Revolutionary Road”, ovvero una famiglia degli anni ‘50 dove tutto è perfetto all’apparenza, ma all’interno nulla splende come sembra. Come disse Tolstoj, “tutte le famiglia felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Ho fatto in modo che ci fosse uno scrittore nella famiglia, per poter parlare di arte e di talento, ma soprattutto del fatto che scrittura e fotografia si assomigliano: due modi di raccontare storie, due tipi di arte che partono da una base comune ovvero la capacità di osservazione.
Io volevo che ci fosse un artista opposto a Vivian, ovvero un uomo che scriveva quello che il pubblico si aspettava da lui, non scriveva per l’urgenza di farlo. Vivian, all’opposto, aveva un talento che ha tenuto per se stessa. La Maier ha dato alla fotografia un ruolo di cura, di arte che serve per vivere, forse sopravvivere. Ha sempre fotografato per se stessa e non per ottenere successo o approvazione.
Frank, invece, è il contrario: come già detto, scrive per un pubblico, scrive libri di successo, ma sente di non fare nulla di onesto.
A proposito di analogia tra scrittore e fotografo, nel romanzo emerge la figura di scrittore come uomo solo; questo è il tuo punto di vista da scrittrice?
Lo scrittore è solo quando scrive, la storia è nella sua testa e in questo senso c’è di me qualcosa di Frank. Creare questo personaggio mi è servito per dialogare con Vivian, come se la stessi interpellando: volevo capire lei e scavarle dentro. La domanda che mi ha guidato nelle ricerche è stata: perché Vivian ha scelto volutamente di non render pubblico quello che realizzava? Perché non guardava le sue fotografie che, peraltro, erano foto perfette e ragionate? Inoltre, tutti gli scatti erano frammezzati sempre da un autoritratto, come se il ritrarsi fosse un modo per cercare di ritrovare se stessa.
Questa espressione è di Melville in Bartleby lo scrivano. Ho voluto inserirlo perché questo racconto lungo mi ha chiamata proprio durante la scrittura. Bartleby era uno scriba nel ‘800, assunto per ricopiare documenti. La sua abilità era proprio quella di trascrivere testi in modo impeccabile. Si tratta di un personaggio ambiguo, solitario e quando l’avvocato per il quale lavora lo trova con le braccia incrociate gli chiede “Perché non copi?“, lui appunto dice: “Preferirei di no", perché sceglie di non scrivere in quel momento, in modo consapevole. Esattamente come Vivian che, in modo cosciente, non mostra le opere a Frank e preferisce non mostrare neppure la sua anima.
Francesca, si vocifera di una tua candidatura allo Strega! Come commenti la tua possibile partecipazione?
Un premio prestigioso, non riesco nemmeno a pensarci. Per ora sono contenta di essere riuscita a scrivere e aver cercato di fare un buon lavoro. All’inizio mi ero fatta scrupoli a parlare di una donna che, per scelta, era stata invisibile. Ma pensando a come trattava i suoi rullini, al fatto che non se ne separava mai e li trattava come figli, ho deciso che, tutto sommato, sarebbe stata felice del fatto che gli altri fossero riusciti ad apprezzarla.
Intervista a cura di Elena Sassi
Intervista a cura di Elena Sassi
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