di Natalia Ginzburg
Einaudi, 2000
Prima edizione: 1942
Con una introduzione di Cesare Garboli
pp. 88
€ 8,55 (cartaceo, Einaudi Tascabili)
€ 6,99 (ebook)
Parola d'ordine: semplicità. È incredibile come in questo suo primo romanzo la ventiseienne Natalia Ginzburg avesse già ben chiare le tematiche che avrebbe portato con sé per tutta la vita e la sua tipica verosimiglianza, travestita da semplicità (tutta apparente) che ritroveremo in Lessico famigliare e nelle Voci della sera.
In questa ottantina di pagine, pubblicate per la volta nel 1942 sotto lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, Natalia Ginzburg ci fa fare conoscenza con la sua protagonista diciassettenne, Delia, con la sua casa misera e scalcinata, dove vivono i genitori e cinque fratelli più il Nini, figlio di un cugino, rimasto orfano e dunque affidato a loro. Delia ha un rapporto speciale con il Nini, almeno finché l'adolescenza non sembra in parte allontanarli: lei prende a frequentare il ricco Giulio, mentre il Nini divide il suo tempo tra il lavoro in fabbrica, i tanti libri che legge e l'Antonietta, che Delia detesta, per il semplice fatto che lei ha portato il Nini via da casa. Quanto al resto della famiglia, la sorella maggiore, Azalea, si sposa con un uomo molto più anziano e va in città: di tanto in tanto Delia va a trovarla e le costa un'ora il tragitto per la strada che va in città. Eppure su quel percorso c'è tutto: la speranza di un riscatto personale, le aspirazioni a un futuro migliore, affianco a un marito benestante, forse un lavoro,...
Tornare al paese, poi, alla casa con le macchie di umidità e la sporcizia delle galline, è sempre più difficile: Delia vuole altro e si illude che Giulio possa essere la sua svolta, portarla via dal paese, a vivere in un appartamento simile a quello di Azalea, forse meno stravagante.
Tuttavia per la sua protagonista, l'autrice ha pensato a un cammino ben più difficile, costellato di ostacoli, di scoperte che dimostrano come anche i sentimenti, che sembrano prima tersi, in realtà possano subire evoluzioni e brusche inversioni.
Come si legge nella prefazione di Natalia Ginzburg apparsa per la prima volta come parte della Nota al volume Cinque romanzi brevi (1964), La strada che va in città è nato nel settembre del 1941, quando l'autrice si trovava lontana dalla sua Torino, nella campagna abruzzese. Tante tessere del suo presente e dei suoi ricordi, riacconciate, hanno trovato posto nell'equilibrio testuale che Natalia ha cercato ricordandosi la critica che sua madre muoveva ai romanzi troppo lunghi: «Che sbrodolata!» e «per non sbrodolare, scrissi e riscrissi più volte le prime pagine, cercando di essere il più possibile asciutta e secca» (p. X della prefazione). E il suo obiettivo, che «ogni frase fosse come una scudisciata o uno schiaffo» (ibidem), è assolutamente realizzato: è straordinaria fin da subito la misura che si trova in queste pagine mai troppo corrive, mai troppo rallentate. Ci si muove seguendo la storia principale, di per sé molto lineare, con alcuni colpi di scena in parte prevedibili, ma questo non è un problema: la storia è semplicemente il canovaccio su cui si muove già una mano sapiente, che sa dove soffermarsi e dove correre lontana, per evitare eccessivo patetismo, pur facendo avvertire al lettore un affetto istintivo per i personaggi. Insomma, una mano da scrittrice.
GMGhioni
Come si legge nella prefazione di Natalia Ginzburg apparsa per la prima volta come parte della Nota al volume Cinque romanzi brevi (1964), La strada che va in città è nato nel settembre del 1941, quando l'autrice si trovava lontana dalla sua Torino, nella campagna abruzzese. Tante tessere del suo presente e dei suoi ricordi, riacconciate, hanno trovato posto nell'equilibrio testuale che Natalia ha cercato ricordandosi la critica che sua madre muoveva ai romanzi troppo lunghi: «Che sbrodolata!» e «per non sbrodolare, scrissi e riscrissi più volte le prime pagine, cercando di essere il più possibile asciutta e secca» (p. X della prefazione). E il suo obiettivo, che «ogni frase fosse come una scudisciata o uno schiaffo» (ibidem), è assolutamente realizzato: è straordinaria fin da subito la misura che si trova in queste pagine mai troppo corrive, mai troppo rallentate. Ci si muove seguendo la storia principale, di per sé molto lineare, con alcuni colpi di scena in parte prevedibili, ma questo non è un problema: la storia è semplicemente il canovaccio su cui si muove già una mano sapiente, che sa dove soffermarsi e dove correre lontana, per evitare eccessivo patetismo, pur facendo avvertire al lettore un affetto istintivo per i personaggi. Insomma, una mano da scrittrice.
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