La madre americana.
Un’educazione sentimentale nell’Italia della Dolce Vita
di Laura Laurenzi
Solferino, 2019
Un’educazione sentimentale nell’Italia della Dolce Vita
di Laura Laurenzi
Solferino, 2019
pp. 260
18,00 € (cartaceo)
Nascere a Roma all’alba degli anni Cinquanta è una condizione di partenza capace di esporre anche la più qualunque delle esistenze a suggestioni sempre in bilico tra realtà e immaginazione. Da una parte le asprezze del secondo dopoguerra, con i fiori secchi del conflitto da mettere tra le pagine dei brutti ricordi o da custodire sotto campane di vetro, pronti per i memoriali futuri; dall’altra la Dolce Vita in boccio, ammaliante di nuovi colori, fragrante di nuove distrazioni. Il desiderio di rinascita e la gioia genuina per le ritrovate certezze quotidiane convivono con la seduzione di sogni mai sognati, miti mai adorati, abitudini mai avute prima. La cosiddetta Hollywood sul Tevere è più che mai il grande set cinematografico che ancora oggi non smette di coccolare l’immaginario collettivo, uno sconfinato teatro di posa – epperò a cielo aperto – in cui la Storia è (come da sempre) in ogni dove, mentre le storie passeggiano, corrono e si rincorrono tra le sue tracce. Laura Laurenzi, celebre giornalista di costume e firma del quotidiano “La Repubblica”, è la figlia perfetta di quella città che le fece da tata nell’infanzia e da chaperon nella prima giovinezza, e che tuttavia fu pur sempre una nutrice comprimaria rispetto a Elma Baccanelli, la madre naturale. Proprio a lei, La madre americana del titolo, è dedicato il suo ultimo libro, appena pubblicato da Solferino.
Figlia di genitori romagnoli emigrati negli Stati Uniti, Elma non corrisponde affatto all’ideale di femminilità che domina l’Italia nella seconda metà del secolo scorso. Non può essere che così, del resto, dal momento che è nata in un continente che sta dall’altra parte dell’Oceano e che ne ha plasmato l’accento e il carattere con la sua lingua e la sua cultura. L’autrice lo dichiara subito, a partire dalle primissime righe:
«Mia madre non era come le altre madri: era americana. Lavorava molto, era una donna solida e idealista, che credeva in quello che faceva. Non aveva niente in comune con le altre mamme. Non l’ho mai vista giocare a carte e neanche prendere il tè con le signore, non portava bracciali d’oro con tanti ciondoli e nemmeno i foulard firmati. E non l’ho mai vista neppure cucinare» (p. 9).Pochi fronzoli e poche arie da “regina della casa” o “angelo del focolare domestico”, Elma era una donna del fare, generosa, devota a un lavoro di responsabilità che ne metteva in luce la grande intelligenza e bontà d’animo: dal 1947 – peraltro l’anno del suo matrimonio con Carlo Laurenzi, firma storica del giornalismo nostrano – fu a capo della neonata sede romana del Foster Parents Plan, un programma internazionale di sostegno economico riservato ai bambini italiani poveri e bisognosi, nonché la prima organizzazione umanitaria non governativa a inventare la formula delle adozioni a distanza. Per ventidue anni, fino alla primavera del 1969, pochi mesi prima della sua morte prematura, lo diresse con impegno e passione, restituendo la possibilità di un futuro a 11.385 tra orfani e indigenti che la guerra aveva privato dell’infanzia e dell’innocenza. Una madre “da dividere” con fratelli e sorelle ideali, dunque, che insegnava a “moltiplicare l’amore” con l’esempio di ogni giorno.
«Quella di mia madre mi sembra una figura sfocata e inafferrabile», scrive Laura Laurenzi, «la fotografia in bianco e nero di una donna che non ha potuto invecchiare. È come se gli altri, tutti noi, avessimo aggiornato il nostro album mentre lei, per un oscuro sortilegio che si chiama malattia e morte, per un banale sorteggio sfortunato, non ha potuto farlo, non è potuta andare oltre, ha smesso di esistere e tocca a me darle vita» (p. 256).Così, nei ventidue capitoli di cui si compone il volume, l’autrice prova a raccontarla e a descriverla in tutta l’originalità della sua joie de vivre. E riesce, soprattutto, a farne percepire sempre la presenza, anche quando la figura retrocede quasi sullo sfondo e avanzano in proscenio gli altri membri della famiglia: il padre Carlo, il fratello maggiore Martino, le coppie dei nonni, Laura stessa (Laura che frequenta un istituto privato gestito dalle suore, Laura che deve andare a letto prima di Carosello, Laura liceale alle prese con i primi turbamenti erotici e sentimentali, Laura che si invaghisce dei ragazzi ribelli e dell’idea stessa di ribellione). Il punto di vista della scrittrice, bambina prima e adolescente poi, è il filtro attraverso cui ricostruire un menage domestico e un’educazione alla vita e ai sentimenti sullo sfondo di un’Italia e di una città che era e non è più, in una metà di Novecento che fu teatro di cambiamenti, rivoluzioni, scandali e tensioni di ogni sorta. Anche per questo, più che a un semplice ritratto di famiglia, La madre americana somiglia a un arazzo in cui i fili del racconto biografico e autobiografico si intrecciano armonicamente con quelli della cronaca e della cultura in due decenni che furono cruciali per la storia dell’Italia e dell’Occidente in senso lato. Un arazzo, dunque, variegato e dinamico, fitto di colori e di figure in movimento tra le quali si riconoscono i profili di alcuni tra i più importanti personaggi della politica, della letteratura e della mondanità del tempo.
Gli aneddoti ricordati a questo proposito sono numerosi, e sempre in qualche modo legati al nucleo parentale: ecco, per esempio, Winston Churchill che regala un sigaro al padre Carlo in cambio di un’intervista non rilasciata in ascensore, oppure Pier Paolo Pasolini che lo prende a palle di neve allo stadio poco prima che inizi la partita. Ed ecco ancora Carlo Levi che, oltre a volerlo tra i redattori del suo giornale, dipinge un ritratto di Elma, provando, come è ambizione di ogni pittore, a restituirne il carattere. Un ritratto, scrive l’autrice,
«bellissimo non nel senso che la rappresenta più bella di quanto fosse, semmai l’opposto: appare invecchiata, segnata. Con le dovute proporzioni, è un po’ come il ritratto che Picasso fece a Gertrude Stein. “Questa non sei tu adesso” le spiegò il pittore “ma sei tu come diventerai”» (pp. 14-15).Non c’è mai indulgenza, non c’è mai compiacimento nelle parole di Laura Laurenzi: ciò che, con malafede, potrebbe sembrare il vanto o addirittura la rivendicazione di uno status (borghese, colto, comunque privilegiato) è la semplice testimonianza di una vita e di una temperie che rendeva tutto ciò naturale, spontaneo, comunque possibile. Una quotidianità descritta per ciò che fu, senza idolatrie e senza indoramenti, in cui poteva capitare di andare a scuola in compagnia della tata e imbattersi nella carcassa d’auto ancora fumante dell’incidente mortale di Fred Buscaglione, oppure di appostarsi in una via laterale per assistere al passaggio del Presidente John Kennedy in visita nella Capitale.
Sebbene scritto con uno stile poco o nulla letterario che lo rende gradevole come una lunga e informale “confessione”, La madre americana si fa quasi lirico nel commovente capitolo finale (Non s’ebbe tempo), quando la morte arriva con troppo anticipo a chiudere gli occhi di Elma proprio nella notte dell’11 luglio 1969, quella in cui gli sguardi di tutto il mondo sono rivolti simbolicamente all’insù, in coincidenza con l’allunaggio. Proprio in quelle ore Laura piange la perdita del suo astro di riferimento: se ne va l’organizzatrice di stravaganti festicciole per bambini, la cineamatrice ante-litteram che si divertiva a filmare lei e suo fratello in visita al giardino zoologico, la cuoca assai poco provetta che chiamava “soda” qualsiasi bevanda gasata e non mancava di portare in tavola certe tipiche pietanze ipercaloriche made in U.S.A. come i pancakes con lo sciroppo d’acero e la banana split. Se ne va l’amica di donne emancipate se non addirittura divorziate, la spettatrice dello storico (e modesto) concerto romano dei Beatles ma anche la sua vicina di poltrona a teatro durante la recita newyorkese del musical Hair, prima improvvisa epifania del nudo e del sesso maschile. Al crepuscolo degli anni Sessanta, quando anche l’âge d’or del Paese sembra ormai sul viale del tramonto, Laura è chiamata troppo presto a una delle prove di maturità più drammatiche per ogni individuo, che fa evidentemente sentire la sua eco anche nel pieno dell’età adulta. E forse è proprio per questo che nel congedo dell’autrice convergono un’apostrofe accorata e uno scongiuro contro l’oblio:
«colpevole di essere sopravvissuta almeno due volte al male che ti ha ucciso, ho cercato di far rivivere in queste poche pagine gli anni che abbiamo trascorso insieme: troppo pochi e troppo lontani, sempre più lontani tanto che li sto dimenticando, così come sto dimenticando il suono della tua voce» (p. 260).Eppure La madre americana è un libro che fa bene proprio alla memoria: quella di un Paese devastato dal dolore a cui l’amore per la vita ha restituito speranza e dignità, e quella di una donna “straniera” a cui un’altra donna, sua figlia, ha restituito la migliore gioventù.
Cecilia Mariani
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