Quella di Pulce è una storia che smuove qualcosa dentro ognuno di noi. Chiunque infatti si porta dentro quel retaggio dall'infanzia che agisce come un pungiglione fastidioso nella coscienza: quel senso di inadeguatezza prodotto, quasi per caso, o con scarsa cognizione dei possibili effetti, da un genitore o un parente incauto: "Ma perché devi essere sempre così aggettivo critico a scelta? Perché non fai come Nome a caso, che è sempre così ulteriore aggettivo, in questo caso celebrativo, finalizzato a sottolineare lo status di eccellenza dell'Altro rispetto a te?". Questo è il punto di partenza de La bambina che somigliava alle cose scomparse (qui la recensione), una favola poetica rivolta a lettori di ogni età, con un profondo significato simbolico relativo all'importanza di definire la propria identità in autonomia e piena libertà, svincolandosi una volta per tutte dalle aspettative altrui, o comunque facendosi valere per la propria unicità. Dopo aver letto il racconto in anteprima, suggestionata tanto dal testo e dalla storia quanto dalle belle immagini di Leila Marzocchi, ho voluto fare qualche domanda all'autore, per scoprire qualcuno dei mille segreti del testo.
Il punto di partenza del racconto è uno stato di incertezza identitaria della protagonista, che viene definita da chi la circonda solo in negativo (non è buona come il fratellino, brava come la sorellina...). Questo la porta a un allontanamento che le permetterà di scoprire qualcosa di più su se stessa, ma innesca anche uno sguardo più consapevole nei suoi familiari. Puoi raccontarci qual è stato lo spunto, il pungolo che ha innescato la narrazione, che io ho interpretato come una storia di formazione a doppio senso?
Nasce tutto dalla mia idiosincrasia nei confronti di chi cerca di inculcare nelle persone più fragili – per età o per carattere – l'insoddisfazione di sé. Mi sono chiesto cosa succederebbe se uno dei tanti bambini cui i genitori fanno pesare il fatto di non essere come vorrebbero si "prendesse una vacanza" per poter essere liberamente tutto quello che vuole lui. Ma invece di un bambino ho preferito immaginare una bambina, perché credo che le femminucce siano più curiose e più libere, quindi più refrattarie a quei condizionamenti che arginano la fantasia, la poesia e l'ironia negli adulti.
Ho trovato interessante che, per riappropriarsi della propria identità, Pulce debba in parte rinunciarci per conformarsi totalmente alle aspettative e ai desideri altrui, assumendo di fatto (anche se solo temporaneamente) la forma di ciò che agli altri manca. Questo è un percorso logico e narrativo che non ci si aspetterebbe, quale ragionamento ci sta dietro?
In realtà Pulce non rinuncia mai alla propria identità, anzi: il suo assomigliare di volta in volta a ciò di cui la vita ha privato i personaggi che incontra è un'involontaria affermazione della sua libertà di essere chi vuole, quando vuole e per i motivi che vuole, senza mai smettere di essere Pulce e senza doversi uniformare ai modelli che cercano di inculcarle i genitori – modelli che tra l'altro, con la lucidità anarchica tipica dei bambini, riconosce come tutt'altro che positivi.
Pulce risolve molti problemi, ma non li risolve tutti: c’è chi si rifiuta di ascoltarla, chi non accetta quello che vede, chi non ha niente da perdere (e quindi niente da ritrovare). Questa parentesi malinconica potrebbe passare quasi inosservata in mezzo agli incontri “felici” della bambina, eppure secondo me è importante. Vuoi spiegarci perché?
Non so se sia malinconica, di sicuro è realistica: Pulce va in mezzo alla gente, quindi ne sperimenta l'eterogeneità. Incontra sia persone innamorate sia ragazze che odiano il proprio aspetto tanto da non trovarsi più nello specchio; parla con un vecchietto simpatico ma anche con l'ombra di un suicida… insomma, incontra il mondo così com'è, e lo affronta con la consapevolezza che può averne una bambina con il suo minuscolo bagaglio di esperienza maturato grazie alle frasi che ha colto qua e là nei suoi brevi ma intensi sette anni di vita.
La bambina che somigliava alle cose scomparse di Sergio Claudio Perroni La Nave di Teseo, 2019 pp. 170 € 15,00 Leggi la recensione |
Non ho inteso scrivere una storia per bambini: quella di Pulce è la storia di una bambina alle prese con gli adulti, quindi credo si possa leggere a vari livelli. Quello delle note è senz'altro un registro diverso, che racconta con ironia le minuscole storie di figure in cui ci imbattiamo quotidianamente. Quanto ai valori, penso che la lettura sia un valore in sé, grazie al quale adulti e non adulti possono maturare la capacità di giudizio necessaria per tutti gli altri valori, senza che qualcuno si senta in diritto di trasmetterli. Peraltro è perfetta la tua interpretazione di "storia di formazione a doppio senso", ché le vicende di Pulce raccontano una duplice evoluzione: da un lato la sua nel corso della storia raccontata, e dall'altro quella dei genitori, cui il timore di averla perduta fa scoprire l'aspetto positivo proprio di quelle sue peculiarità che fin lì avevano ritenuto difetti.
Il tuo stile mescola elementi di grande concretezza con slanci più lirici, a tratti anche fantastici. Senza voler necessariamente fare riferimento al realismo magico, c’è qualche autore o qualche volume che ha condizionato la tua formazione umana o letteraria?
Gli autori di cui sono debitore come uomo sono infiniti, da Frisch a Pirandello, da Butor a Proust, da Shakespeare a Berto; come scrittore, invece, solo di uno, ed è l'Ovidio delle Metamorfosi, a mio avviso il romanzo – proprio così: romanzo – più bello che sia mai stato scritto. È senz'altro alla sua straordinaria libertà di composizione, alla sua formidabile capacità di mescolare prosaico e poetico, che devo ogni singola riga che riesca a scrivere con una certa dignità letteraria.
Intervista a cura di Carolina Pernigo
Intervista a cura di Carolina Pernigo