di Silvia Ranfagni
edizioni e/o,
2019
pp. 159
€ 16,00
pp. 159
€ 16,00
Corpo a corpo è un romanzo che bisogna leggere. E che non lascia scampo. Un
romanzo che bisogna leggere perché non
lascia scampo. La narratrice è una donna che si scopre, quasi per caso, giunta
a un'età in cui le trasgressioni sono già tutte alle spalle: le avventure, le
serate alcoliche, gli eccessi in generale, che il suo corpo sopporta sempre
meno. La sua stessa fisicità, su cui credeva di avere pieno controllo, si fa
ribelle, con quei seni che iniziano a subire la forza di gravità. È nel momento
in cui la consapevolezza del tempo che passa si fa più amara che la
protagonista, quasi senza soluzione di continuità, inizia a salutare i bambini
per la strada e a chiedersi quali traguardi abbia mai raggiunto nella sua vita:
"quale scopo dare all'esistenza, hai
domandato al tuo riflesso nel Negroni" (p. 16). Da qui all'acquisto su
internet di un campione di sperma è un attimo: nel tentativo di sfuggire alla
desolazione – alla morte –, la quarantunenne Beatrice stipula un contratto a
vita senza aver letto le clausole scritte in piccolo. Perché, fin dalle prime
ecografie in cui lo spettro lattescente che emerge dal fondo buio sembra più un
vampiro che un bambino; fin dai primi esami clinici, dai primi piedini stampati
sulla pancia da "una volontà dentro
di te che non è tua" (p. 30-31); da tutto questo e molto altro appare
chiaro che "non sei tu ad avere un
figlio, ma è il figlio a possedere te" (p. 14). Dopo un'esistenza dedicata
a compiacere e appagare sé stessa, a consumare beni e momenti, la donna viene
messa in secondo piano: le sue esigenze accantonate in favore di quelle di un
altro, la tendenza a usare sostituita
dall'obbligo di dare, nutrire, accudire.
In un momento in cui
proliferano libri sulla paternità, felice e appagante come quella di Longarini (qui la recensione),
o faticosa e frutto di un lungo apprendimento, come quella di Sgambati (qui la recensione), è
fondamentale sentire una voce diversa sulla maternità. Che non è sempre facile,
non è sempre ovvia, non è sempre naturale
per la donna, anche se la natura la reclama a gran voce.
Darwin ha più chiara di te la verità biologica del Corpo, fatta di materia, boli, feci, catarri; e che il suo apparire sulla crosta terrestre imporrà la lotta per la sopravvivenza: adattarti al cambiamento, questo dovrai fare per sopravvivere. (p. 29)
Di una lotta vera e propria si
tratta, perché il Corpo, quando nasce, non ha pietà di nessuno: si attacca alla
vita con le sue dita minuscole e colei che l’ha generato si trova
immediatamente a passare in secondo piano. Ce lo ricorda un incipit durissimo e
veritiero, che prepara il lettore a cosa seguirà e forse scoraggerà gli spiriti
troppo sensibili.
Il Corpo è meschino. Vuole solo la sopravvivenza. Cemento, inquinamento, insolazione, irritazioni, tutto gli dichiara guerra. Per lui è sempre troppo caldo o troppo freddo, per lui si mettono e si tolgono uniformi. Il grido del Corpo ferisce. A volte è per il sole cattivo, la sete, la fame; a volte non si sa proprio perché. Sterilizzare, disinfettare, lavare, anche in mezzo alla notte, anche quattro volte prima dell'alba, perché il Corpo pesa tre chili ma ha zero grammi di compassione. (p. 9)
Il problema sollevato da Silvia
Ranfagni è che la società si dimentica
delle madri: le coinvolge forzosamente nel circo che circonda la
gestazione, le idolatra e tutela finché sono portatrici della vita, poi le
abbandona nel momento in cui lo spettacolo inizia davvero, senza avvisarle che
è uno spettacolo di funamboli: pericoloso e sempre al limite. Le madri devono
essere gioiose e felici, perché "la
maternità è meravigliosa" (p. 35). Nessuno indugia sul "nonostante" dietro a cui a volte si
apre un baratro di solitudine, angoscia, inadeguatezza. Nessuno ti prepara a
questo, perché si dà per scontato che l'istinto guiderà il più semplice e
scontato dei processi di apprendimento, che è la cura della prole. Quindi
nessuno ascolta davvero, tutti liquidano le paure e le richieste d'aiuto della
neomamma con blande rassicurazioni: è solo una fase, tenga duro, presto
passerà. Così la donna è sola. Vive anzi
il paradosso di essere sola pur non essendolo più, perché il Corpo è lì, come
un'appendice piena di necessità e bisogni primordiali, mossa esclusivamente da
esigenze primarie la cui soddisfazione non può essere dilazionata o rimandata.
La depressione è un male che
troppo spesso resta senza nome e che rende il mondo un luogo ostile, il figlio
una creatura ostile. La madre inizia una lotta anche con se stessa, nella
irrisolvibile tensione tra le aspettative e la realtà, i desideri e il senso
del dovere, l'istinto di protezione verso la creatura e un senso di rifiuto a
cui non si riesce a dare un nome. Silvia Ranfagni riesce, con una narrazione dal ritmo sincopato e dalla
grande incisività, a dare voce all'indicibile. E ogni donna, che sia madre, non
ancora madre, o non madre per scelta, si può riconoscere in questa donna, nelle sue incongruenze.
Una luce biancastra filtra dalle imposte. Lui ancora non dorme. Strilla. Strilla come un pazzo. È completamente fuori di sé. Non guardarlo in questo modo, guardalo, guardalo e basta! Non sai fare nemmeno la madre. Solo un mostro non la sa fare. Non hai dormito. Non sai calmarlo, non sei capace. Non so aiutarti. Non riflettere. Non perdere altro tempo. Non devi andare all'ospedale? Non vuole niente, nemmeno il seno. Vuole solo gridare. Non si addormenta. Ficcagli in bocca il contagocce. Ficcaglielo! Bloccagli la testa! Ecco, altra tachipirina. Non sai quello che fai. (p. 44)
Il romanzo ti mette all'angolo perché getta sul tavolo diverse questioni, e tutte in qualche modo ti riguardano: da un lato che la maternità non è l'unico destino possibile per la donna, concetto spesso dimenticato; dall'altro, di certo non più considerato, il fatto che anche la madre resta primariamente donna, e che il continuo scontro tra questi due poli dell'essere non risulta sempre facilmente o velocemente risolvibile. Al contempo, la descrizione del rapporto della madre con il Corpo si complica a farsi metafora di un difficile rapporto con l'Altro, incarnato in questo caso non solo dal figlio-estraneo, ma anche dalla figura della tata, assunta nel tentativo di trovare finalmente un supporto, e quindi un nuovo equilibrio. Già la ricerca mette a nudo le ipocrisie della protagonista: forte della sua posizione di superiorità (morale, sociale), Beatrice decide di attingere dal Sud del mondo, passando in rassegna intere categorie umane, diverse appartenenze nazionali, e squalificandole tutte sulla base di pregiudizi e facili generalizzazioni.
No, non sei razzista. Questi non sono i tuoi pensieri, ma gorgoglii nella parte più buia dell'intestino [...]. No, non sei razzista. Solo scruti con occhi diffidenti una specie diversa, come fanno gli animali che devono restare in allerta e non conoscono compassione. No, queste cose non le pensi, queste cose le senti. (p. 51)
Al di là di ogni possibile
spiegazione razionale che si tenti, il desiderio di ribadire la propria condizione
(e quindi elezione) di donna occidentale colta e realizzata è un modo per
riprendere il controllo di un'esistenza che, da otto mesi, cioè
dall'apparizione del Corpo, sembra sfuggire. Al tempo stesso, la riluttanza ad aprirsi all'alterità in
ogni sua forma indica la resistenza dell'individuo che conduce una vita
regolare e prevedibile ad ammettervi qualunque elemento destabilizzante.
Per questo l'arrivo di Elsa per Beatrice finisce per essere quasi
perturbante: dopo il Corpo, c'è una ulteriore usurpazione di spazio, una donna,
detta appunto "l'Altra", o addirittura "quella", con cui
condividere la quotidianità. E ad Elsa viene facile tutto quello in cui
Beatrice è inadeguata, Elsa si fa carico del peso di tutto e di tutti (compresa
una famiglia ramificata e dispersa in tutto il Corno d'Africa); Elsa è colei su
cui la madre può comodamente scaricare le frustrazioni, nonché il peso e la
responsabilità dei propri fallimenti. Perché Beatrice è soprattutto una donna egoista, che non vuole e non riesce a
mettere il figlio davanti a sé ("Sei
una brava madre. Fai sempre il meglio per te stessa", p. 115). Ma col
passare del tempo, il limite tra il bene del figlio e il proprio si fa molto
più sottile, e man mano che lui diventa una persona definita, un individuo
autonomo, anche le dinamiche relazionali si complicano e i sentimenti si fanno
più sfumati. Si inizia ad apprezzare, anche se solo per attimi fugaci, l’universo
meraviglioso e pieno di curiosità filtrato dai suoi occhi.
Silvia Ranfagni ci dice che a essere madre si impara, forse, negli
anni, ma il percorso è arduo e pieno di rallentamenti, momenti di stasi, a
volte anche passi indietro. E con il tempo che passa non si riesce mai a
venire davvero a patti, anche se si accetta il suo proseguire nel corpo
dell'altro. Quella raccontata dall'autrice è la storia irrisolta di una duplice invasione, di un confronto con la
diversità radicale che è connesso al nostro stare al mondo, e quindi
inevitabile. È una storia di cambiamenti e di compromessi. Di
trasformazioni irreversibili del sé. Di prese di posizione. Di maschere
indossate, di "performance da
giocoliere" continuamente rinnovate (p. 151). Beatrice è una donna
imperfetta e spesso sgradevole, nelle verità che confessa e nel suo esternare
pensieri che paiono poco consoni al suo ruolo di madre. Nella sua ottica la
maternità può diventare una questione di possesso, di narcisismo, anche di potere.
In questo modo, con un testo scomodo, che spesso ferisce, la scrittrice pungola
le certezze di ogni donna, portandola a interrogarsi sulle sue proprie ragioni,
sui propri limiti, e a capirsi un po’ di più.
Carolina Pernigo