“Come si diventa ciò che si è”, dice il sottotitolo
dell’opera autobiografica di Nietzsche “Ecce Homo”, ed è quanto potrebbe
compendiare, almeno nella formula bruta per chi abbia fretta, l’orientamento
teorico entro cui sono composte le opere contagiate dalla filosofia
dell’esistenza. Il destino si insinua nei discorsi, li insidia, promette l’avverarsi
del miraggio del senso: appena oltre l’orizzonte della vita, quando non sembra
dispiegarsi altro che l’in-significanza di un mondo spogliato dalla figura di
Dio, piuttosto comoda nell’articolazione di quel certo orizzonte, sarà
necessario contemplare la somma delle proprie opere. Adeguate all’ideale di
libertà che affranca gli uomini dalle dialettiche (servo/padrone, uomo/donna, identità/alterità),
dal dualismo enfatico dietro cui la filosofia si è un po’ mascherata nella sua
ambizione ai “distinguo”, allora si potrà dire che l’opera sarà simulacro del
corpo, sostituendolo alla morte, simile a una maschera di cera che sottragga al
volto certi lineamenti prima dell’intervento della decomposizione. I corpi
possono essere defraudati: dalla malattia, dalla morte, ma in forma più
puntuale dal “diventare adulti”, dalla crescita, quel percorso che permette di
essere esperito nient’altro che alla conclusione: dietro, l’opera compiuta; davanti, il progetto dell’opera da compiere. Se ogni opera,
inteso nel significato ambiguo di “azione compiuta” e “oggetto d’arte”, non è
che la sublimazione di una certa età dell’esistenza, lo scrittore diviene
allora un vivente che esperisce due volte la vita, più fortemente, senza
mancare di contraddizione: non servirà affermare di nuovo le coppie oppositive
attraverso cui la letteratura è spesso dipinta (“ascetica e puttana”, la dice
Giorgio Manganelli in uno degli improvvisi raccolti in “Il rumore sottile della
prosa”, Adelphi), ma presentarle nell’unicità esclusiva dell’individuo.
È allora necessario esordire dalla conclusione per
introdurre i memoriali che Simone de Beauvoir prepara dal 1958 al 1981. Come?
L’ultimo, “A conti fatti” (tr. B. Fonzi, Einaudi) non è forse pubblicato dal
1972? Ebbene, nel 1980 la malattia e dunque la morte trovano rifugio in Sartre,
depauperandolo di fatto di fatto prima della vista, dunque della lucidità: gli
ultimi giorni non saranno che la lotta, già in tasca la sconfitta, contro
l’avversario che si insinua e che tuttavia diventa inassimilabile, il delirio
che precede l’interruzione delle funzioni vitali: tanto più doloroso, quanto accorto,
senza difetti di coscienza. L’anno successivo, Simone de Beauvoir prepara un
documento sui dieci appena trascorsi. «Ci separa la sua morte», scrive, «La mia
morte non ci riunirà. Così è; ed è già bello che le nostre vite abbiano potuto
tanto a lungo proseguire all’unisono». Nessuna arrendevolezza; piuttosto, la
stesura dell’epilogo.
«Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in
una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail», dice
il prologo del testo che ha per titolo “Memorie di una ragazza perbene” (tr. B.
Fonzi, Einaudi): la cronologia non è che uno degli stili della biografia; la
vita ha più la forma di un innesto continuo del ricordo e del progetto
nell’istante dell’esperienza, che dell’andamento tranquillo. “Diventare”, come
nella celebre citazione de “Il secondo sesso” (tr. it. R. Cantini – M. Andreose,
Il Saggiatore) per cui «donne non si nasce, lo si diventa», richiede
l’intervento della biologia, dell’ambiente, dell’anelito individuale che agisce
per differenza; di un tempo modellato, plagiato, “epicizzato”. La «stanza dai
mobili laccati di bianco» non può che essere esordio: vi seguiranno, per altri
tre volumi, l’epica di una ragazza nata perbene, l’alterità da cui è stata
investita, quella da cui ha provato ad affrancarsi, quella da cui invece è
stata strappata a forza. Più tardi, Simone (così si potrebbe definirla,
distinguendo come per Marcel Proust tra autrice e voce-narrante), prima che
adolescente, scriverà della «mischia umana» in cui desidera immergersi, il
turbinio della vita; una «mischia» che non distingue gli uomini dalle opere d’arte,
tiene insieme le chiacchierate con Sartre, gli impeti di passione per lo
scrittore americano Nelson Algren che la investiranno negli anni ’50, i romanzi
conclusi e quelli alla prima stesura, i trattati teorici, il cinema di Charlie
Chaplin. «Una voce diceva: bisogna scrivere; noi obbedivamo, coprivamo pagine e
pagine di scrittura: per arrivare a cosa? Chi ci avrebbe letto? E cosa
avrebbero letto?», registra “L’età forte” (tr. B. Fonzi, Einaudi), il memoriale
dell’adolescenza. Trasformare la vita, dunque, “diventare” se stessi. Dove
Sartre non sa affrancarsi dall’addizione (Io-coscienza + Altro), Simone de
Beauvoir osserva il turbinio del mondo e procede per differenza: tutti gli
altri “meno” me stessa, una forma particolare dell’Io-coscienza. A causa della sua
condizione femminile? “Il secondo sesso” descrive la macrocategoria delle donne
come alterità per eccellenza: dove l’uomo è Io, la donna è Altro; non che le
costringa alla relegazione, anzi, piuttosto a una emancipazione più che dispendiosa
dal movimento invischiante della dialettica.
“La forza delle cose”, (tr. it. B. Garufi), attraverso cui l’autrice
si racconta dentro la grande stagione intellettuale del secondo dopoguerra, si
conclude con una nota di commento a quanto raccontato durante le pagine precedenti.
«Quel che di più importante, di più irreparabile mi è successo dal 1944, è che
[…] sono invecchiata. Questo significa molte cose. E prima di tutto il mondo
intorno a me è cambiato: si è rimpicciolito e assottigliato», e ancora, «Non
arrivo a crederci. Quando leggo stampato: Simone de Beauvoir, è sempre una giovane
donna che mi parla […] posso rendermi conto, stupita, fino a che punto sono
stata defraudata». Tale defraudazione non è tuttavia che una nota a margine
dell’opera, la «terza età» (il riferimento è a un saggio della stessa de
Beauvoir dedicata alla condizione degli anziani) si presenta come un calcolo
delle opere compiute: “ho ancora tanto da dire!”, è la preoccupazione, “il
destino non può compiersi così velocemente”. Lo sguardo dell’Altro, l’occhiata
che conforma l’individualità a se stessa, agisce su un corpo inerme: allora si
chiama lettore. Basterà un nuovo volume perché l’inquietudine sia placata: «non
mi è più necessario prendere come filo conduttore il trascorrere del tempo; in
certa misura terrò conto della cronologia, ma organizzerà i miei ricordi
soprattutto intorno ad alcuni temi», si legge in “A conti fatti”. Abbandonare
la cronologia significa “diventare” opera, letteraria e politica, speculativa e
pratica: trasformarsi in destino.
Antonio Iannone