#CriticaLibera - Spinoza e Stendhal. Sartre critico letterario


Si manifesta sulla pagina (questa, ad esempio) un certo nugolo di parole: fanno gruppo, le si distingue perché un assemblaggio di segni intestini, definito “codice html”, ha permesso che su uno sfondo bianco ne emergessero altri più evidenti, espliciti: alcuni, è vero, colonizzano l’interesse, ma uno sforzo di volontà basta a riassestare la lettura per dedicarsi alla decifrazione del testo. Un muro, anzitutto, i cui grassetti consentono di arrampicarsi dall’esordio (il “si manifesta…” che segue il titolo) per ridiscenderlo di nero e bianco sino alle (troppo comuni) generalità dell’autore. Se si vorrà confutarlo o, ipotesi meno probabile ma pur sempre valida, citarne un passo di particolare acume, sarà necessario ripescarlo nella confusione e dedicarsi all’esercizio di rilettura sino a sopraggiunta noia. Prima che permettere una certa descrizione immaginifica le parole sono anzitutto un numero indefinito di tratti sulla pagina sempre più nitidi, sempre più significanti.


Invece che inoltrarsi in una teoria del segno linguistico, si potrebbe considerarne i margini: quei margini che raccolgono una manciata di parole su altrettante pagine (meno di tutte le parole, salvo esperimenti letterari) per comprimerle e suturarle insieme in una certa rilegatura. Il libro è il margine della parola, ma come accade spesso a quelle anomalie capaci di lacerare i paradigmi precedenti e fabbricarne di nuovi (la Recherche di Proust, il Dialogo di Galilei), è lo stesso margine che lungi dall’amputare, proietta certe norme in territori altrimenti ignoti tanto che i precedenti non sembrino che vuote erranze sulla strada altrimenti dritta del romanzo o della storia della scienza: tutto quanto si esperisce, i libri non soltanto lo contengono, ma anche lo definiscono: e il confine annienta e produce; la definizione sia costringe “il definito” a se stesso sia gli permette di non dissolversi nel pulviscolo dell’inarticolazione. «Non sapevo ancora leggere», scrive Jean-Paul Sartre nel 1964 tra le pagine del memoriale “Le parole” (J.-P. Sartre, Le parole, tr. it. L. de Nardis, Il Saggiatore), «ma già le riverivo queste pietre fitte: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir, io sentivo che la prosperità della nostra famiglia proveniva da essere» (p. 29); e quei «monumenti tozzi, antichi» (ivi, p. 30) che lo hanno “visto nascere” si comportano da entità che valicano l’esistenza inerme per assumere volti ora in atto di spia, ora in atto di subire ammirazione; oggetti sacri, cultuali: persino l’ammirato è realtà in movimento, non fosse che per la grazia di non sottrarsi a quell’esercizio di studio. I libri diverranno allora l’oggetto da fare: come il nonno li “faceva” per aver “inventato” (il termine è di Sartre) un’antologia di testi letterari tedeschi, e ogni anno ne accoglieva la ristampa distribuendo le bozze sul tavolo, segnando di rosso gli errori e insieme bestemmiando contro “il suo nemico mortale”, l’Editore, così lui, il piccolo, senza neppure conoscere (ma non è il conoscere un modo stesso del fare?) a chi appartenesse quella mano capace di scrivere tanto senza mai affaticarsi da ricolmare una biblioteca intera, avrebbe partecipato a quell’artigianato e imprecato anche lui fra i denti correggendo un plico di bozze, se non per l’Editore, almeno per se stesso.

Tutto non è che il dispiegarsi di una certa situazione, secondo il compendio di una delle tesi più celebri de “L’essere e il nulla” (id., L’essere e il nulla, tr. it. G. del Bo, Il Saggiatore) e dunque dell’articolo “L’esistenzialismo è un umanismo” (id., L’esistenzialismo è un umanismo, a c. di M. Schoepflin, Armando editore): situazione intuitiva, schiocco della mente che prima di scoprirsi si adegua alla condizione esistenziale della situazione-decisione: “farò libri”, dice il bambino di se stesso ancor prima che una singolare causalità, di certo interpretata come l’istante in cui il destino si riduce a fato per non essere accusato di misticismo, gli presenti sotto gli occhi un quadernino dimenticato da chissà-chi su un sedile qualsiasi della metropolitana. Il “quaderno Midy”, dalla casa farmaceutica che ne distribuiva le copie agli iniziati, sarà l’attimo in cui uno strabico dalle ambizioni di genio diventa scrittore nella forma che più tiene insieme tradizione e vocazione. Le prime pagine non sono che minuta replica di brani firmati da altri; ai Saggi di Michel de Montaigne e al Discorso sul metodo di Renèe Descartes si mescolano a volte tiepidi esperimenti d’interpretazione, disegni inarticolati di sistema, grumi di intuizione romanzesca: il decentramento si è compiuto. Il lettore si è fatto scrittore allo stesso modo per cui si dice che un bambino “si fa grande”. «Lo scrivere», si legge ancora ne “Le parole”, «il mio nero lavoro non rinviava a nulla e, di colpo, prendeva come fine se stesso: scrivevo per scrivere» (p. 125). Ma il “se stesso” cui l’autore si riferisce non annienta il moto, non lo estingue: piuttosto lo circoscrive nella propria essenza. Allo stesso modo “L’essere e il nulla” presenterà la coscienza quale «essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere in quanto questo essere ne implica un altro distinto da sé» (p. 29). Nell’atto stesso di scrivere “si fa questione” dello scrivere.

Autori capaci di repentini spostamenti del contesto linguistico la storia delle letterature (poiché si dovrà dirne al plurale come delle “filosofie”) ne ha conosciuti più d’uno, né sembra poi il gran merito di Sartre: l’aver fatto della filosofia, del romanzo, del teatro e infine di quella bestia indomita che ha nome di critica letteraria non sono che espressioni, a volte soltanto tratteggiate di profilo e infine abbandonate al formicaio di possibilità che sottende alle opere inconcluse, di quel prisma che riflettendo dalla penna alla pagina il raggio del tratto scrittorio genera (o degenera in) proiezioni dissimili: qui un dialogo, lì un tentativo di interpretazione, laggiù un elaborato critico.

È il 1974 quando Simone de Beauvoir, anch’ella scrittrice plurale (“anche” poiché di Sartre si occupa l’articolo, si fosse occupato di lei, di lui si sarebbe detto, citandolo: “anch’egli”), inaugura con l’uomo che l’ha accompagnata sin da ragazzina ormai anziano e celebre intellettuale, alcune conversazioni al magnetofono: tanto oziose quanto non prive d’interesse per comprendere fedeltà e tradimenti di un uomo a se stesso. «Essere Spinoza e Stendhal» (S. de Beauvoir, Conversazioni con Jean-Paul Sartre, in La Cerimonia degli addii, tr. it. E. De Angeli, Einaudi, p. 151), questo il proposito del giovane Sartre. Spinoza, il filosofo per eccellenza che presenta una fortezza teorica inoppugnabile sia in forma teoretica che etico-politica; Stendhal, lo scrittore tra le cui pagine null’altro si incontrerà se non il romanzarsi della cronaca (non ingiustizia, piuttosto ammirazione): rigore e favola congiunti dalla scrittura. Già assimilati dall’unico fatto di esser parte di quell’universo da libreria, Sartre “vuole essere” entrambi: deve allora liberarli dalla prigione della costina, dalle spille, dallo spago in sutura, avere tra le mani pagine senza dorso, senza copertina soltanto per poterle mescolare: né filosofia romanzata come quella di Søren Kierkegaard né romanzo filosofico simili a quelli di Voltaire (o del collega Albert Camus). Le opere ragionano secondo il proprio tessuto linguistico servendosi di alti tessuti quali appigli espressivi, gemme di concretezza nell’opera. Esemplificazioni, a volte, come i rimandi alla “Recherche” di Marcel Proust che innervano le pagine del trattato “L’essere e il nulla” dedicate alla risoluzione della dicotomia opera/autore: Sartre, così attento all’evocazione di scene topiche, concede a Marcel (l’io narrante del volume proustiano) la medesima autorità di Pietro, figura evocata dal volume per rappresentare la forma “in atto” della situazione. Pietro, che ora attende seduto all'angolo di un caffè, ora è atteso da un “io” che esperisce l’assenza, possiede caratteristiche di fluido capaci di insinuarsi tra le maglie del trattato: se la filosofia lavora per una circoscrizione del pensiero così solida da somigliare a fortezza, Pietro, intuizione di romanzo, recita da sedizioso, da aspirante evaso. E l’evasione, Hugo scrive ne “I Miserabili”, non è che un movimento del canone carcerario: soltanto l’evaso può provare di essere davvero prigioniero, criminale onesto. Non estinzione del carcere, piuttosto peripezia di una certa singolarità già da sempre orientata a un fine, non fosse che quello della morte. Tra l’esordio-nascita e l’epilogo-morte si consuma l’esistenza. Interpretazione sin troppo narrativa? E sia. Al lettore decidere per l’epopea, il romanzo di formazione o l’aspirazione al realismo magico.

È l’economia teorica entro cui emerge la delineazione dell’intellettuale impegnato sulla scena politica (engagèe): «i nostri critici […] non vogliono avere niente a che fare con il mondo reale, tranne per bere e per mangiare, e visto che non si può fare a meno di vivere e trattare con i nostri simili, hanno scelto di trattare con i defunti. Si appassionano solamente per i problemi archiviati, le dispute concluse, le storie di cui si sa solo la fine», si legge nel saggio programmatico “Che cos’è la letteratura?” (in Che cos’è la letteratura?, tr. it. L. Arano-Cogliati – A. Del Bo et. al., Il Saggiatore). Impegno che tuttavia si riferiva anzitutto alle singolarità: il marxismo di cui la filosofia dell’esistenza si vestirà dalla conclusione degli anni ’50 in poi non è che l’espressione ideologico-politica di quella relazione che ne “L’essere e il nulla” sembrava sin troppo spogliata delle proprie condizioni storico-dialettiche. L’Altro era ancora alterità; certo, l’autore si affrettava nel chiarirne il nome (Pietro, Marcel, etc.), nel situarlo atteso o in attesa, ma il leggero declivio tra l’enunciato a tema “Altro” e quello a tema “Pietro”, per necessità letterarie conseguenti, costringevano lo sguardo a un’osservazione consequenziale della proposta teorica. L’alterità coincide con la relazione e dunque con l’orientamento politico degli individui. Un filosofo direbbe: “è immanente”.

Tutto quanto presentato sopra non è stata una premessa un po’ troppo articolata del narratore che si sia lasciato “prendere la mano” dalle descrizioni della stamberga o dell’abbazia, piuttosto l’esplicazione della singolare prospettiva sartriana, la cui espressione stilistica assume forma più compiuta nelle opere di critica letteraria. Il romanzo ha voce di romanzo; il saggio, di saggio: ma la critica è un’idra (si perdoni l’analogia mitica), le cui teste sono molteplici: idra quale manifestazione del sublime, animale capace di generare terrore e ammirazione: e le teste ricrescono, non si fa in tempo a reciderne una, sperando muoia di dolore per troppo interesse dedicata all’altra, che subito lamenta attenzioni, insiste fintantoché non ci si occupi anche di lei. Le analogie sono la forma più semplice di interpretazione: basta prendere un certo grumo e disarticolarlo in quante parti si desidera pur di materia ineguale, dunque si potrà trasferire le parti in un secondo recipiente costringendole ad assumerne la forma. Sostituendo, insomma, l’idra alla critica, si potrebbe scrivere che nella prova d’indagine di un testo bisogna essere strabici, pluralizzare lo sguardo. Sartre, già addestrato dal difetto genetico, osserva regioni dissimili di mondo e ne prova una sintesi: tentativo, stilistico prima che interpretativo, di assimilazione delle parti nel tutto-libro. «Il genio di Proust», chiarisce ancora “L’essere e il nulla”, «non è né l’opera considerata isolatamente, né il potere soggettivo di crearla: è l’opera considerata come l’insieme delle manifestazioni della persona» (p. 12). Per tale ragione sembra così immediato ascriverne le opere di critica, “Baudelaire”, “Genet”, “Flaubert”, “Sartre” stesso (oggetto d’indagine de “Le parole”) a uno psicologismo di stampo biografico: vita e destino, nulla più di quanto Stephan Zweig non avesse fatto ad esempio con Honorè de Balzac (S. Zweig, Balzac. Il romanzo della sua vita, tr. it. L. Mazzucchetti, Castelvecchi), ovvero descrivere di un autore le erranze verso una certa meta, quella cui già da sempre era orientato, senza lesinare fonti documentarie quali lettere e annotazioni. I cattivi versi su Cromwell prodotti dal giovane Honorè, scritti per magnificare il proprio desiderio di celebrità, non erano che errore insignificante nel progetto di stesura della commedia umana.

In Sartre altre intuizioni sottraggono l’autore al buon proposito della biografia: progetti di emancipazione. Le figure tratteggiate, spesso tanto distinte da quegli uomini di genio che quelli neppure vi si riconoscevano, non perseguono un certo destino, piuttosto guerreggiano con le definizioni e provano a lacerarle, le accarezzano e le tradiscono. Santo-Genet (come da titolo dell’opera, Santo Genet. Commediante e martire, tr. it. C. Pavolini, Il Saggiatore), del tutto dissimile da Jean-Genet-scrittore quanto può esserlo il barone di Charlus nella “Recherche” dalla matrice che ha permesso a Proust di narrarne vizi e virtù (e di considerare i primi superiori alle seconde), costretto sin da bambino all’identità di ladro attraverso quel gesto di definizione sovrana capace di generare gli uomini, proverà per l’intera esistenza il congedo dalla camicia-di-forza che è il nome: sarà ladro e non-ladro, criminale e non-criminale. È in tale forma del rovescio, del negativo per dispetto alla definizione, che si conferma “il genio” di Genet: il Diario del ladro non sarebbe che la rappresentazione (o la “messa in scena”) di quell’esercizio attraverso il dispiegarsi di un certo intreccio narrativo. La scrittura, il “gesto” dello scrivere, si traduce allora non nella creazione di un certo “doppio” di, bensì nella “doppia affermazione” di un’esistenza: (esistere per esistere) ed (esistere per scrivere). L’imprigionamento degli enunciati valga da significazione di due cellule distinte tenute insieme dalla congiunzione. 

È la condizione della pluralità, singolarità dissimili che si raggruppano per una prassi comune: l’esistenza di Genet. «La coppia eterna del criminale e della Santa» (p. 88), scrive Sartre. È quanto già osservato nel saggio dedicato a Baudelaire, sebbene vi resista l’ombra della psicoanalisi, l’inconscio a sostituzione del conscio, il «clima interiore […] abbastanza facile a scoprirsi» (p. 69). Molto si può comprendere dal malinteso: una teoria che ambisca all’archeologia di un animo non può che attardarsi sulla costituzione di fantasmi: il Passato, l’Indifferenza. Si è ancora nel territorio delle maiuscole. Cinque anni dopo (il “Baudelaire” è datato 1946), lo spostamento dalla “decodificazione” all’interpretazione narrativa è compiuto: Genet non vanterà il battesimo di Ladro, bensì di ladro; il “Santa” dovrà sostenerlo l'aggettivo “eterna”. L’eternità è l’infrastruttura che regge la Santità. La ragione di tanto interesse verso l’opera psicoanalitica, la quale troverà compimento letterario nella stesura di una sceneggiatura su Freud (Freud. Una sceneggiatura, tr. it. A. Morini, Einaudi) mai trasposta su pellicola, si potrebbe azzardarla nella stessa orrorifica molteplicità cui la libertà costringe: bisogna opporvi un fine, una teoria. Soltanto l’abbandono di una ragione decodificante permetterà a Sartre di di tratteggiare romanzi invece che profili. L’opera critica si compirà mescolando all’autorevolezza della filosofia l’erranza e l’indecidibilità del romanzo.

Antonio Iannone