di Alessandro Marchi
libro/mania, DeA Planeta Libri, 2018
pp. 422
€ 9,90 (cartaceo)
€ 1,99 (ebook)
«Ai nonni, le cui vite hanno fatto la Storia»
Recita così la bellissima dedica che apre il romanzo Tu non ci credere mai di Alessandro Marchi, classe 1979, scrittore («non esageriamo», rimbalza subito Alessandro dal suo sito Internet). E invece sì, caro Alessandro, scrittore.
Perché, allo stesso modo in cui i nonni, con le loro stesse vite, e spesso, malgrado loro stessi, hanno fatto la Storia, così tu hai saputo prendere l'esistenza, grama, ma così importante, di tuo nonno Aldo e l'hai trasformata in una storia. Da leggere, rileggere. Raccontare. L'hai fermata sulla carta, per evitare che il tempo, passando da una generazione all'altra, la disperdesse, come polvere al vento.
Fin dalle prime pagine ho intuito che questo romanzo mi sarebbe piaciuto: ho avuto infatti un nonno la cui vita, per tanti motivi, è stata molto simile a quella del nonno di Alessandro. Mio nonno Ferruccio, nato anche lui nel 1911, buttato, suo malgrado, anche lui, nel 1935, nell'inferno della Guerra d'Africa, una volta tornato a casa rimase vedovo, anche lui, come il protagonista del libro, con figli piccoli, cresciuti in collegio, da suore che d'istinto materno avevano assai poco. Perché poi mio nonno, in guerra, a differenza del nonno di Alessandro, fu costretto a tornare. E senza mamma, i bimbi, nella fattispecie mia madre, crescevano in collegio. Queste poche righe personali solo per dire che tanti nonni potrebbero avere storie profonde e toccanti da raccontare, essendo stati lanciati dal dado della Storia in un periodo così tremendo, ma non tutti hanno nipoti come Alessandro che, grazie a indubbie capacità narrative, sappiano trasformare queste storie in romanzi.
Alessandro ha fatto semplicemente questo: ha preso la storia del nonno Aldo e l'ha messa per iscritto, ravvivandola, completandola, anche con la fantasia, laddove necessario, ha saputo prendere le memorie familiari, probabilmente sentite raccontare fin da piccolo da genitori, zie e zii, e le ha dipinte e rifinite con suoni, odori, profumi, sapori, colori, sensazioni, atmosfere in modo da ammantare il ricordo di vitalità, freschezza e contemporaneità. Leggendo questo libro infatti noi non percepiamo il "racconto di un ricordo", ma entriamo nella storia in medias res, leggiamo di avvenimenti che ci sembrano contemporanei alla lettura. Quasi che Alessandro Marchi si sia fatto, egli stesso, protagonista della vita del nonno. Che non ha mai conosciuto, per inciso.
La storia è presto detta: Aldo Marchi, giovane contadino in un piccolo appezzamento di terra sugli Appennini tosco-emiliani, conduce una vita povera, ma dignitosa. Vive con i genitori e i fratelli, frequenta le feste di paese (un tempo, unico momento per poter mettere gli occhi addosso a una ragazza), conosce Carolina, si fidanza e si sposa. In pochi anni arrivano tre figli, Ivanna, Umberto e Marino. Ma la guerra, costruttrice di Storia universale e distruttrice di storie personali, si incarica di scompaginare esistenze che, senza il suo contributo, potrebbero scorrere tranquillamente. Aldo viene chiamato per combattere in Abissinia, qui vede ed è costretto a fare cose terribili e qui si pone le prime domande angosciose: è giusto che gli Italiani facciano scempio di poveri indigeni per prendere la loro terra?
Il tempo di un batter d'ali e, una volta tornato a casa, è Aldo a trovarsi dalla parte sbagliata: sono i Tedeschi che rastrellano le sue colline e fanno strage di indigeni. Che poi sono gli Italiani, malcapitati, dei paesi distrutti dal nemico. E Aldo paga uno scotto davvero importante, la sua Carolina ... Ma poi fosse solo la guerra... già basterebbe. E invece no, la vita di Aldo viene segnata e distrutta dalla malattia, che è solo epilessia, ma a quel tempo diagnosticata come pazzia. E la sua vita prenderà una china in discesa nella quale Aldo non potrà far altro che rotolare sempre più in basso. Trafitto dall'ipocrisia della gente, dalla facilità e dalla cattiveria, a volte inconsapevole, con cui venivano etichettate le persone e da una certa difficoltà di cura, che doveva fare i conti con le conoscenze dell'epoca. Perché, senza girarci troppo intorno, il protagonista finisce in manicomio, con tutto ciò che questa parola portava con sé negli anni a cavallo tra il 1930 e il 1960.
Ogni pagina di questo romanzo è essenziale, ogni parola è funzionale alla storia. E lo stesso mezzo espressivo, il linguaggio adottato, rispecchia questa essenzialità: pulito e nitido, ma, in talune assonanze con il dialetto (poche e sempre pertinenti), il linguaggio utilizzato è in grado di mediare con la lingua originale che i personaggi di certo avranno usato, quel dialetto contadino, di campagna, che si intuisce in una sorta di sottotesto linguistico. Anche i dialoghi contribuiscono a dare verosimiglianza, freschezza e genuinità a un romanzo che vuole essere in primis una memoria familiare.
«Non sei mai stato a Roma? Non c'è problema, quando torniamo sei ospite mio».«E quando torniamo?»«Non siamo ancora partiti e già vuoi tornare?!» rise.«La terra ha bisogno di me».«La Terra gira da un milione di anni senza di te, e girerà ancora per parecchio. Nun te preoccupà».
Ottima la scelta, così immersiva, di far parlare l'io narrante: butta il lettore dentro la testa, il cuore, il corpo (soprattutto nelle parti per così dire ospedaliere) di un uomo che il mondo ha voluto allontanare da sé, definendolo "matto". E il lettore segue la lotta di nonno Aldo contro persone, medici e società scendendo tutti i gradini, dalla ribellione alla pugnace resistenza, fino alla dolorosa sconfitta.
"Tu non ci credere mai" è un libro che non scalerà le classifiche, che avrà una distribuzione giocoforza limitata e forse locale, probabilmente non diventerà un bestseller. Eppure è un romanzo che va letto per la cruda realtà di ciò che racconta e per come lo racconta.
Certo, forse alcuni personaggi andavano meglio delineati, forse ci sono dei pesi che potevano essere bilanciati meglio, forse gli interventi in cui è il figlio Marino a parlare, sempre in prima persona, andavano presentati in modo più chiaro. Ma sono tutti piccoli appunti ben perdonabili per uno scrittore a inizio carriera.
Quello che rimane a fine lettura è la sensazione di aver letto un bel libro e di avere arricchito il proprio archivio personale con la storia di Aldo, simile a quella di tanti Italiani, purtroppo misconosciuta e persa.
Rosatea Poli