di Viola Di Grado
La Nave di Teseo, 21 marzo 2019
pp. 233
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Esce oggi in libreria il quarto romanzo di Viola Di Grado. È un romanzo sulle oscillazioni tra amore e orrore: non c’è storia che parli del primo senza farlo anche del secondo, ha detto l’autrice in occasione delle prime presentazioni del libro. È anche un romanzo sui corpi e sulla coabitazione tra vivi e morti in un angolo di mondo malato, un paese della Russia, Musljumovo, devastato dalle conseguenze di un disastro nucleare. Lì Tamara – un’insegnante – si preoccupa che i bambini contaminati non si ammalino ancora di più, non vadano a giovare al fiume radioattivo. E lì Vladimir – un infermiere – si confina per curare quelli che erano stati abbandonati da tutti. Anche Tamara, a poco a poco, viene abbandonata da tutti, perché è pazza agli occhi degli altri. Solo Vladimir tenta a suo modo di restare accanto a lei, in una relazione di amore che – a Musljumovo – non può che essere malata, nelle parole, nelle azioni e finanche nell’erotismo. Ed è una relazione che non può avere frutti: dall’avvelenamento non può nascere un figlio sano. E infatti nasce morto, malformato. Tamara non si riprenderà mai dal tutto da un desiderio di maternità razionalmente rifuggito ma intimamente coltivato. Per questo quando una telefonata misteriosa la avvisa del fatto che il suo bambino, il suo Alëšen’ka, anni dopo il suo parto senza vita, è lì nel bosco e la attende, Tamara non esita a farsi madre e ad accogliere con sé una creatura diversa da tutte le altre, “l’essere più strano e fragile della Terra”.
Nel microcosmo di Musljumovo tutto si dissolve: la realtà nell’allucinazione, l’amore nell’orrore, i liquami nel fiume radioattivo. E, nonostante non se ne faccia quasi mai menzione, si avverte netto il senso del dissolvimento definitivo dei resti dell’Unione Sovietica.
Nel microcosmo di Musljumovo tutto si dissolve: la realtà nell’allucinazione, l’amore nell’orrore, i liquami nel fiume radioattivo. E, nonostante non se ne faccia quasi mai menzione, si avverte netto il senso del dissolvimento definitivo dei resti dell’Unione Sovietica.
La realtà aveva preso tutto.
Anche il sogno e l’immaginazione.
Lui i morti se li sognava anche, la notte, un muro di facce spente e di corpi ammassati, persone livide sui letti d’ospedale o in piedi nelle strade, morti che nella morte continuavano a invecchiare, marcivano nelle loro tute da lavoro scolorite, nei loro grembiuli. Bambine pallide che saltavano la corda sul bordo della strada, sempre più vecchie, nei loro vestitini ricamati che tiravano sul petto fino a strapparsi.
La realtà aveva preso tutto. Non era rimasto nulla.
Nulla.
La storia è in gran parte vera, il disastro nucleare è realmente avvenuto, nel ’57, così come il misterioso ritrovamento nel ’96 di Alëšen’ka, un essere identificato come non umano.
Quanto lontani possono essere da noi, lettori e lettrici italiani del 2019, uno sperduto territorio radioattivo della più lontana Russia, il lerciume del kitsch degli anni ‘90 (che però riconosciamo quando si incarna nelle caramelle vecchie e frizzanti alla fragola), l’assurdità di una divinità coordinatrice che chiama al telefono, una donna squilibrata che ritrova un alieno?
Quanto lontani possono essere da noi, lettori e lettrici italiani del 2019, uno sperduto territorio radioattivo della più lontana Russia, il lerciume del kitsch degli anni ‘90 (che però riconosciamo quando si incarna nelle caramelle vecchie e frizzanti alla fragola), l’assurdità di una divinità coordinatrice che chiama al telefono, una donna squilibrata che ritrova un alieno?
Viola Di Grado Foto di Nerina Toci |
Leggendo il libro ci si avvicina al dolore Tamara – donna e madre di un corpo illogico – che sente più degli altri, perché sente i morti oltre che i vivi. Tamara ci fa provare la dignità delle scelte, il senso del rifiuto delle “medicine per vedere solo le cose giuste”. Per questo Fuoco al cielo è un romanzo sull’ipocrisia dell’additare sempre qualcun altro come osceno, come pazzo, come untore. Tamara viene letteralmente lapidata da chi non capisce che a Musljumovo c’è una tragedia, c’è un popolo che può avere solo figli malati, come lei, che sente su di sé il dolore di quel popolo.
E se l’impossibile diventa possibile è perché anche la lingua del romanzo - ecco l'altra meraviglia -smonta ogni ipocrisia. È lirica, ma narra con oggettività e imparzialità. È paratattica, ma non è mai accumulo di parole che ammicca al lettore. E poi c’è sempre quel qualcosa nella lingua di Di Grado che la rende la meno italiana delle scrittrici italiane. E la conferma in cima tra le più interessanti.
Serena Alessi
@serealessi
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