Non c’è stata nessuna battaglia
di
Romolo Bugaro
Marsilio,
2019
pp.
217
€ 16
(cartaceo)
Sono figli di cardiologi che tengono le coppe dei tornei di tennis vinti in gioventù sulla mensola dello studio, accanto alla foto scattata sul ponte della nave durante la crociera nei fiordi, oppure figli di avvocati che amministrano gli immobili e le campagne di famiglia nella zona di Udine e Pordenone, oppure figli di farmacisti che dovrebbero proprio decidersi a licenziare Aldo, sebbene lavori con loro da trent’anni, perché non riesce più a scaricare nel modo giusto una fustella che sia una. (p. 41)
C’è
un’epoca, ci dice Bugaro nel secondo lunghissimo capitolo, che del suo romanzo
occupa quasi la metà, durante la quale ogni cosa è sproporzionata: le giornate
sono lunghissime, e abbiamo tempo da sprecare in piazza o al bar, liberi da
impegni che non siano scolastici; le amicizie sembrano saldissime e
irrinunciabili, legami che paiono destinati a durare per tutta la vita; gli
obiettivi sono chiarissimi e a portata di mano, perché fondamentale risulta
essere in cima alla piramide sociale del proprio gruppo; gli amori sono
soverchianti e lasciano senza fiato, qualcosa per cui vale la pena morire.
Così,
mentre intorno si fa la storia e gli anni di piombo pesano nei corpi delle persone e arrivano nelle case
attraverso i servizi al telegiornale, l’epoca dei ragazzi del muretto di Padova
è segnata dalle rivalità interne fra chi vuole essere il capo del proprio
gruppo e chi tenta di scalare la classifica, dal desiderio di entrare a tutti i
costi alla festa più esclusiva del quartiere, da quel misto di curiosità e fame
che anticipa di poco l’esplosione della sessualità della tarda adolescenza e
della prima giovinezza.
È in
questo ambiente naturale che troviamo immersi i protagonisti del romanzo di
Bugaro, un gruppo di quindici- sedicenni che vuole tenersi fuori dalle tante questioni di quegli anni, figli
non di proletari armati né di alti borghesi, bensì di quel grande crogiolo di
identità che è il ceto medio. L’autore, attraverso delle carrellate
paragonabili ai campi lunghi cinematografici, ci descrive con l’abilità di un
regista neorealista chi popolava le piazze, i bar, i caffè, il modo
in cui nascevano amori e lotte clandestine all’interno dei circoli e degli
ambienti padovani. Ma è poi su un gruppo che da queste dinamiche si tiene fuori
che la sua lente si concentra, e ciò che ne emerge è la contrapposizione fra
quell’epoca di cui s’è detto prima – anonima, leggera, appunto sproporzionata –
e ciò che viene dopo, l’età adulta con tutti i suoi problemi reali, le sue
dinamiche fin troppo mondane e per affrontare le quali è richiesta la capacità
di leggere il presente e un giudizio che deve liberarsi delle fantasie
adolescenziali.
Nelle
giornate del 1976 i ragazzi si picchiano, si baciano, s’incazzano per un
nonnulla, fanno attenzione a quello Zippo importato dall’America che tanto sa
di status symbol. Negli anni successivi li ritroviamo cresciuti, alle
prese con divorzi, figli a loro volta adolescenti, crisi bancarie e droga,
quella maledetta piaga sociale che è stata l’eroina per tutto il mondo nella
seconda metà del novecento. Il confronto è durissimo, raccontato con un
sapiente dosaggio di cinismo e nostalgia, entrambi gli ingredienti rivolti indietro, verso l'ottimismo e la leggerezza ormai alle spalle, protagonisti indiscussi della giovinezza e del boom
economico che preludeva al disastro.
Gli
anni giovanili sono perlopiù scevri da eventi fondamentali, se li consideriamo
alla luce di ciò che viene dopo (matrimoni, figli, lavoro), eppure risultano quasi
sempre indimenticabili, forse perché altamente formanti, o magari perché tutto
è novità e mistero. In fondo è ciò che è accaduto a molti di noi, che siamo
stati spesso troppo presi dalle “inutili” beghe quotidiane (le ragazze, i ragazzi, i torti subiti e i baci sperati) per comprendere gli
avvenimenti politici e storici di rilievo in atto, e che poi ci siamo trovati
immersi nel mondo quando già era tutto accaduto.
David
Valentini