Conversazioni con tre sopravvissute ad Auschwitz:
Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi
di Daniela Padoan
Bompiani, 2018
pp. 245
€ 10,00 (cartaceo)
Anch'io volevo che la vita continuasse, non volevo,
come la moglie di Lot,
diventare pietra volgendomi a
guardare la città dei morti.
Ruth Klüger, Vivere ancora
Come una rana d'inverno è un'opera che si legge tutta d'un fiato e poi richiede un lungo periodo di sedimentazione e rielaborazione prima che se ne possa parlare. Non si sa da dove partire, come scriverne senza tradirne i contenuti, come dare il giusto peso all'importanza di una triplice testimonianza che diventa – in un fitto intreccio di richiami e rimandi interni, in una sensibilità condivisa – una narrazione sola, densissima di significato. L'ideatrice e curatrice, Daniela Padoan, si è trovata di fronte a un compito arduo che ha saputo gestire con equilibrio e intelligenza, come mostrano chiaramente l'"Introduzione alla nuova edizione" e la lunga "Postfazione", necessario complemento del volume. In un tempo in cui le testimonianze dirette si fanno sempre più rare per la progressiva sparizione dei sopravvissuti, in cui spesso il ricordo si limita ad una retorica sfoderata ad arte in un solo giorno dell'anno e il fenomeno della Shoah perde sempre più la sua carica di indicibilità e viene sempre più "normalizzato", o addirittura banalizzato, ritornare alle voci dirette di chi c'era è ancora più fondamentale. Infatti
quella del testimone è una figura inevitabile, che continuiamo a incontrare come perturbante e che non possiamo rendere innocua: sta lì a dirci, con la sua sola presenza, che anche noi avremmo potuto, e potremmo, essere ridotti in cenere. [...] Il testimone ci dice che il nostro mondo, insieme alla nostra tradizione di pensiero, ha fallito. [...] Il testimone che ci guarda e ci giudica è il nostro specchio. (pp. 9, 11)
Daniela Padoan sceglie di partire da qui, ma anche dalla consapevolezza che, nel ricordo, le voci maschili hanno finito per prevalere su quelle femminili: "su centoquarantanove opere di memorialistica della deportazione dell'Italia, i libri di donne, nel 1994, erano una ventina" (p. 200). Questo porta a sottovalutare un elemento importante, ovvero il fatto che l'esperienza femminile del Lager fu in parte differente rispetto a quella maschile. Non si ragiona mai, nel testo, in termini di qualità o di entità della sofferenza, non si dimentica mai che ogni racconto è un racconto a sé, specifico e irriducibile, eppure si mette in evidenza che nelle testimonianze delle donne si trovano prospettive inedite, derivate da una diversa sensibilità, da diverse priorità:
Senza dimenticare per un solo istante che l'obiettivo dei nazisti era cancellare dal mondo gli ebrei, uomini o donne che fossero, […] riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite dalle donne, così come sul loro modo di opporre resistenza e rendere testimonianza, può però servire ad allargare di un poco l'ambito della riflessione. (p. 201)
I racconti declinati al femminile ruotano intorno a temi specifici: la maternità, negata o mancata; l'umiliazione ai danni dei corpi nudi, il pudore violato, ma soprattutto la dimensione della comunità, della relazione, che per le donne è in qualche misura maggiore che per gli uomini. Tutte, ci dice Daniela Padoan, "ricordano le compagne come parte essenziale del racconto del Lager e talvolta come struttura stessa della testimonianza" (p. 212). Questo dipende forse dalla natura stessa della femminilità, più portata all'assistenza, alla cura, all'apertura verso l'altro: "l'uomo è più isolato, si costruisce lui stesso questo isolamento", osserva Giuliana Tedeschi, mentre "le donne sono maglie, se una si perde, si perdono tutte" (p.163).
Sono tre le voci che si intrecciano in questa narrazione: tre donne che hanno attraversato lo stesso campo, Auschwitz-Birkenau, nello stesso periodo – l'anno precedente la liberazione (e che forse devono a questa contingenza la loro sopravvivenza). Tre donne, però, che vi arrivarono in momenti diversi della vita: Liliana Segre appena adolescente, a tredici anni; Goti Bauer quasi donna, a diciannove; infine Giuliana Tedeschi, moglie e madre, a trenta. Tre donne allora che portano tre visioni differenti, complementari, ma profondamente radicate nel loro modo di essere e di patire, non sovrapponibili le une alle altre, pur nel riconoscimento di molti elementi comuni:
la femminilità – quella del corpo sessuato e quella del corpo materno – e la relazione con l'altra come identità profonda: queste sembrano essere state le corde più profondamente ferite dal Lager e al contempo il terreno di un'intima, strenua resistenza. (p. 214)
C'è chi, come Liliana Segre, ha vissuto il tempo della prigionia cercando di essere invisibile, di non stringere legami, ma una volta uscita ha sentito come una cappa di piombo il peso della solitudine, di essere circondata da persone che non potevano, e non volevano, non solo capire, ma nemmeno ascoltare. C'è poi chi, come Goti Bauer, non avverte così forte la necessità di fare una distinzione di genere nel ricordare l'esperienza del campo. Le sue parole ci dicono a ogni pagina di una forza interiore alimentata grazie a una profonda capacità di empatia, a una pietas verso chi la circondava che diventava elemento fondante della resistenza. Per lei, la prova della nudità diventava una prova tra tante, un'ennesima occasione in cui dare dimostrazione di una dignità autoimposta:
Questo essere spogliate, scrutate, osservate era talmente frequente che non gli si dava più importanza. O meglio, io la vivevo come più offensiva per chi la compiva piuttosto che per chi la subiva. Mi creda, di fronte a un camino da cui viene fuori in continuazione una fiamma che sparge attorno un odore acre di carne umana bruciata, che ti invade l'animo prima che le narici, niente ha più importanza; non un'umiliazione di questo tipo, non le botte, non la sofferenza fisica. L'immagine del camino che arde rappresenta la totalità delle emozioni che si possono vivere, superata forse soltanto dalla paura che possa toccare a te. Perché in ogni momento poteva toccare a te. [...] Tutto il resto, dopo la prima, la seconda, la decima delle occasioni in cui abbiamo dovuto esporci così, le assicuro che non rappresentava più niente per noi. Niente. [...] quella è per me, nei ricordi, la cosa più orribile, più mortificante: non aver potuto salvare nessuno. Non aver potuto aiutare nessuno. Per il resto… Il resto era secondario. (pp. 99-100)
E infine Giuliana Tedeschi, che sostiene con fervore la diversità radicale del vissuto femminile ad Auschwitz: "Per le donne è stato tutto uno strappo continuo, un attacco alla nostra stessa identità femminile. I capelli, la nudità, l'immediata solitudine e, soprattutto, il distacco dei figli. Per un uomo è diverso" (p. 146). Più anziana delle altre, lei offre ricordi più confusi per quanto riguarda date e nomi, ma vividissimi per i volti, gli eventi, la rilettura a posteriori dei fenomeni. Insegnante alle scuole superiori prima che le leggi razziali le facessero perdere il posto, Giuliana testimonia con uno stile ricco e carico di immagini, che restituisce con particolare intensità la barbarie subita:
Nel lager non eravamo più padrone neanche del nostro corpo, ed è una sensazione di indicibile miseria. Il corpo era aggredito, deturpato, misconosciuto… Per questo lo volevamo coperto, per questo era un dramma essere esposte alla vista altrui, perdere i capelli… L'aspetto fisico non era soltanto una questione legata all'estetica, all'esteriorità, ma determinava – come posso dire? – un giudizio morale. Nel lager il concetto del corpo come sede della scintilla divina sembrava un retaggio di remote concezioni filosofiche o religiose; il corpo era una buccia vuota, un involucro inerte, scrutato, ispezionato per giustificarne la fine al crematorio. (p. 157)
Perché il campo di sterminio è il luogo dell'arbitrio assoluto dei violenti, in cui la vita (o la morte) si decide con un cenno del capo verso una fila, o verso l'altra; perché le scarpe devono essere spaiate per renderti difficile camminare e lavorare in un contesto in cui dalla tua capacità di camminare e lavorare dipende la tua possibilità di strappare un altro giorno alla camera a gas; perché i soggetti vengono disumanizzati e marchiati come bestie e le donne – come intuiva Primo Levi nel passo celebre a cui rimanda il titolo del volume – venivano espropriate di tutto (della libertà, dei figli, della possibilità stessa di generare), ridotte a "esseri [...] in cui l'unico residuo di umanità balenava negli occhi, grandi e dilatati, dove a tratti si affacciava ancora, misteriosamente, la luce di una qualche vita interiore" (p. 152). Sono concordi, le tre testimoni, nel sottolineare che chi possedeva e salvaguardava questa scintilla interna aveva molte più possibilità di sopravvivere: la cultura, il senso della cura di sé, le risorse offerte dalla fantasia, dall'immaginazione di un "dopo" rispetto al campo, tutto ciò di intimo a cui ci si poteva aggrappare riusciva in molti casi a fare la differenza. Racconta Liliana Segre:
I sommersi erano uguali, uomini e donne. E poi ho visto quelli che si sarebbero salvati, che si sarebbero salvati comunque, anche se fossero stati mandati al gas, perché erano spirituali, erano forti, avevano degli ideali, avevano la religione o avevano un carattere che li sosteneva fino all'ultimo. (p. 33)
Tutte queste caratteristiche emergono con forza anche dalle parole delle sopravvissute, dalle pagine di questo libro. Ognuna a modo suo, queste tre donne si fanno portatrici di un messaggio ineludibile: gli storici infatti non possono che ricostruire una parte limitata della realtà concentrazionaria (quella basata sul rigore dei numeri, o dei documenti), e allora è alle voci dei testimoni che bisogna rifarsi per completare il quadro, anche se le si trova magari fallate dal tempo, o portatrici di storie individuali che è difficile assemblare in una visione generale. Le voci dei (delle) testimoni non hanno forse la precisa oggettività delle statistiche, ma certo riportano a un grumo oscuro del nostro passato prossimo con cui è bene fare i conti prima e al di là di ogni retorica, ma anche di ogni tentativo di categorizzazione o teorizzazione critica. Le memorie dirette non sostituiscono la conoscenza storica, evidentemente necessaria a una piena comprensione, ma la integrano, ripristinando un rapporto dialettico, costruttivo, tra ciò che è e ciò che è stato, tra i vivi e i morti che ancora ci parlano.
Carolina Pernigo
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