L'attentato di Sarajevo
di Georges Perec
Nottetempo, 2019 (prima ed.)
traduzione italiana di A. M. Franco
pp. 112
€ 16, 00 (cartaceo)
€ 7, 99 (epub)
Scruta dal fondo dell’abitacolo, seppure privo dell’armonia
dello sguardo (neppure di un paio d’occhi un po’ strabici, un particolare buffo
su un volto tutto sommato anonimo), le sopracciglia dipinte delle generalità,
estirpate con ferocia quasi poliziesca; più sotto un abbozzo di labbra, lungo o
breve a seconda dello spirito, cui si concede la definizione di titolo. È il
mostro: il romanzo nel cassetto. Ne custodiscono i più ingordi tre o quattro
persino: moncherini di romanzi cominciati e per cui non è previsto epilogo, un
abbozzo di trama, appena il disegno di un carattere principale o di un
antagonista; qualcuno può addirittura dirsi concluso nella prima stesura o nella
seconda, ma se ne sta indolente all’ombra della vita.
Poco meno che una fenomenologia di quell’agglomerato di
pagine la cui violenza è nella scompaginazione: nel cassetto, il romanzo si
sottrae all’editoria, all’industria culturale, ai Saloni e ai salotti; dice,
come Bartleby, “preferirei di no”. La sua esistenza posizionale (il cassetto)
lo relega all’assenza d’opera entro cui la follia è definita e dunque
indocilita: si potrebbe fare della prigionia manicomiale di Antonin Artaud
l’espressione autoriale di quel mancato assenso. La pubblicazione è ciò
che sopraggiunge non per liberare, bensì per costringere a un ordine l’insensatezza:
quelle costine e quelle alette, quei dorsi tutti inamidati di colla, quelle
spille e quella dialettica dritto-rovescio del cotone non somigliano forse a
celle, grate, propositi di una via di fuga tutta a lenzuola annodate? Dalla
scompostezza del cassetto al garbo dell’industria editoriale: la pena è fuori,
l’inferno sono le librerie.
Poniamo un giovane lettore, vent’anni all’incirca. Turbato
dall'accumulo di romanzi è un giorno percorso da un fremito: un’idea comincia
allora scivolargli dalla testa alle mani, per utilizzare categorie biologiche,
e la dinamica del declivio si traduce nel movimento convulso di una penna sulla
pagina. Come la scure di Raskolnikov si abbatte sull’anziana usuraia, così il
delitto è commesso in forma di incipit; crimine sordido, tanto lucido da
frammentare il buon senso e abbandonarsi alla fantasticheria. A differenza del
saggista che scrive sotto dettatura della chiarezza salvo precipitare in
un’oscurità autoindotta, il romanziere si preoccupa di segregare in cantina
significati e significanti: si ubriachino pure. Ancora le mani annoteranno
pagine su pagine, tratteggeranno virgolette e batteranno segni d’interpunzione,
dunque si arresteranno. Il romanzo è concluso. La firma ne segnala la
circolazione dal territorio dell’immaginifico a quello del prodotto affinché
gli si dica: “e adesso sbrigatela da solo!”. L’attenuante è allora abbandonare
il grumo di carte in un fondo di cassetto, in particolar modo se ascrivibile al
campo dei capolavori, si costringe invece tutti gli altri a prenderne parte, lo
si pubblica persino. E disgraziatamente si diventa scrittori.
È appena ventunenne (di un anno più adulto del nostro
ipotetico criminale) Georges Perec quando di ritorno dalla Jugoslavia e
impelagato nel fascino della psicoanalisi si accorge dei sintomi del morbo
letterario. Le dita gli pizzicano, la testa è presa da chissà che
fantasticheria e segue l’andamento di certi fantasmi per le strade di Parigi;
adesso che il romanzo si è insinuato in lui, se ne libera in cinquantadue
giorni e ne prepara una seconda stesura. “L’attentato di Sarajevo” (tr. it. A. M. Franco, Nottetempo) è rifiutato
dagli editori e può godere finalmente di riposo, si presume eterno. L’autore,
dopo una seconda opera anch’essa sottesa alla fortuna dell’anonimato (“Il
Condottiero”, tr. di E. Ferrero, Voland), è costretto alla celebrità dal romanzo “Le
cose. Una storia degli anni Sessanta” (L. P. Caruto, Einaudi) e dunque da “La vita. Istruzioni
per l’uso”, (tr. it. D. S. Estense, Bompiani), il cui esercizio di polifonia letteraria
mescola e innesta discipline, narrazioni, intervalli cronologici. Ma un romanzo
non può essere che sopito, basta scuoterlo dalla polvere e annoverarlo tra le
preziosità editoriali, la curiosità da laboratorio: è in fondo la forma più
democratica della norma assimilare fino all’ultimo appunto, fino all’ultimo
pazzo. Nel 2016 le due stesure sono ricondotte alla sintesi del
libro; ciò che la seconda aveva soppresso sopravvive nella forma dell’interpolazione
al corsivo.
Il lettore non può che ragionare dunque sull’unico volume che tiene
in mano, una copia tra tante; può interessarsi alle vicissitudini di un amore
così particolare e microscopico da influire sul Primo Conflitto Mondiale,
lasciarsi andare come il narratore a moti violenti di gelosia, persino abbandonarsi a
una critica sulla qualità dell’opera.
Si compiacerà insieme a una delle alette di riporla nell’ordine del
destino dell’autore: «vi si ritrovano le fondamenta creative di un autore che è
diventato un classico», dice il commentatore oscuro; la restituirà all’economia dell'opera omnia con un’intuizione
qualsiasi del tipo: “come nei romanzi successivi, è il particolare a erigere l’universale”.
Potrà dunque conservarla in libreria, scriverci una recensione, un’opera
critica, una Tesi di laurea. Il libro ha ormai fagocitato il manoscritto, mulinando
per fame pure qualche documento: ed è qui che Perec, abbandonato per troppa euforia,
si ricongiunge con il proprio corpus.
Le due pagine di appunti in esergo tra le quali l’autore si diagnostica il morbo nella curatela di una scaletta di eventi, l’indecisione
che a «sussurrava» lascia effondere una più numerosa gamma di verbi dei più
distinti campi semantici tra cui «bemollizzava», «caramellizzava» e «ondulava», non producono forse nella presunta struttura organica della preziosità, l’anomalia dell'arte del puzzle, della
letteratura potenziale?
Antonio Iannone
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