di Rachel Kushner
Einaudi, aprile 2019
Traduzione di Giovanna Granato
pp. 330
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Sammy mi ripeteva in continuazione quant'era importante avere qualcuno fuori, ma io non le dissi mai che avevo un sostegno. O che mi avevano dato due ergastoli più sei anni. Erano affari miei e di nessun altro. Come nel camerino del Mars Room, non dai il tuo vero nome. Non fornisci informazioni. Non parli di te perché non c'è niente da guadagnarci. (p. 115)
Romy Hall ha passato tutta la sua vita a imparare a stare zitta, o perlomeno a non parlare di sé: prima al Mars Room, il locale dove ha fatto lap dance fino a quando è scappata a Los Angeles, poco prima di essere arrestata per omicidio. L'abitudine di farsi chiamare Vanessa è servita a poco: perlomeno non è bastata a tenere lontano Kurt Kennedy, uno dei clienti abituali, che ha iniziato a nutrire per "Vanessa" quello che lui definiva affetto, e che si è rivelato invece un'ossessione morbosa. Pedinamenti e stalking sono in grado di esasperare una donna, tanto più se al suo fianco c'è un bambino piccolo: Jackson. E da lì a un gesto estremo - per protezione, sfinimento, paura - non passa molto. Ecco perché nelle prime pagine del romanzo troviamo Romy su un cellulare che la deve portare nella sua nuova prigione, dove dovrà scontare due ergastoli e sei anni. Quei sei anni suonano tristemente paradossali? Mai quanto i regolamenti carcerari, o le regole che le donne del penitenziario si sono auto-imposte per sopravvivere senza ossa rotte lì dentro.
Fin dall'inizio colpisce la lucida riservatezza di Romy, grandissima osservatrice delle sue compagne di viaggio e poi compagne di cella: lei tende a non rivelare niente di sé, perché tutto può essere pericoloso, anche solo una foto personale. E tutto diventa merce di scambio: dalle lettere alle merendine fatte passare rocambolescamente attraverso lo scarico del gabinetto, dai cosmetici barattati a ciò che le donne riescono a sottrarre al lavoro,...
Dentro, ognuna cova la propria nostalgia per un mondo esterno che ha abbandonato, pieno di problemi e di persone che non verranno mai in visita, perché costa troppo arrivare alla prigione e spesso ci vogliono tante scartoffie prima di essere ammessi. Certo, c'è anche chi cerca di trovare un senso nella detenzione ed entra ed esce di prigione: «In prigione puoi essere qualcuno. La vita ha un suo senso se sai come scontare la pena, e io lo so. Sono un'esperta» (p. 154). Ma per lo più le donne hanno una vita fuori che bussa, e stare dentro è solo puntare alla sopravvivenza. È così che accanto alla storia di Romy, che pensa al suo Jackson fortunatamente affidato alla nonna, sfilano le storie di tante altre carcerate: dalla quindicenne Sanchez, che ha partorito nelle prime pagine nell'ufficio d'immatricolazione, alla logorroica Medea Laura Lipp, che ha ucciso il figlioletto per punire l'uomo con cui stava, o a Conan, che si sente un uomo intrappolato in un corpo di donna,... Sono tante le donne che, volenti o nolenti, si pestano i piedi in una cella pensata per quattro detenute, dove invece ne sono stipate otto.
In un continuo andirivieni di ricordi fuori dal carcere e stralci di presente, Rachel Kushner prende la violenza, la piega sotto la sua penna, riversandola ora in frasi rudi, senza sconti, ora la addomestica aprendo nel romanzo squarci di speranza e di illusioni. Ma le illusioni cadono sempre, come la speranza che le storie lette nei libri, durante le lezioni del professor Gordon Hauser, permettano di volare oltre le sbarre della prigione. L'atterraggio, poi, è sempre duro. E non fa che ricordare che detenzione è anzitutto sinonimo di privazione, unito alla riscoperta di un'animalità feroce, che lascia riemergere solo di tanto e timidamente le emozioni. L'amicizia esiste lì dentro? O si tratta sempre e solo di alleanze?
Giochi di potere ed esibizioni di forza sono all'ordine del giorno, così come - controcanto inevitabile - si delineano presto i leader e i gregari della prigione ed escono gli istinti più sotterranei, che invece erano tenuti a bada nella vita fuori dal carcere. L'altro lato della medaglia, poi, è la difficoltà di affrontare giorno per giorno una intera vita lì dentro - e la resistenza è estenuante:
«Dicono che la condanna ti colpisce a ondate. La mia mi stava colpendo. Non vedevo un modo per accettare quella come vita, per viverla fino alla fine». (p. 288)
La straordinaria capacità di narrare la violenza dall'interno, senza essere semplici spettatori, alternandola al racconto di vite decisamente difficili, ha reso Rachel Kushner una delle scrittrici americane più acclamate dello scorso anno. Mars Room è anche stato selezionato come Miglior libro dell'anno 2018 da «Time Magazine» e figura tra i libri notevoli del «New York Times»; inoltre, è stato tra i finalisti del Man Booker Prize, del National Book Critics Circle Award e candidato per la Andrew Carnegie Medal. E i riconoscimenti pubblici sono meritati: lo scoprirà con i suoi stessi occhi il lettore che non ha paura di scontrarsi con un mondo scarnificato dove domina la lotta per restare umani, nonostante tutto.
GMGhioni
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