Foto per gentile concessione dell'autrice |
I primi giorni di aprile è arrivato in libreria il romanzo d'esordio di Serena Patrignanelli, La fine dell'estate (NN editore), che abbiamo recensito qui. La vicenda si svolge in un Quartiere anonimo, che però assomiglia a tanti paesi italiani durante la Seconda guerra mondiale, sconvolti sì dalla miseria e dalle tragedie, ma anche rischiarati dai raggi della speranza di poter ricominciare. Perché, in fondo, l'estate si ostina a tornare e i bambini continuano a correre per le strade, vociando nei loro giochi infantili e nelle sfide di coraggio che li preparano al mondo. E qui è ambientato un romanzo di formazione e di amicizia che farà imparare ai protagonisti, Augusto e Pietro, cosa significhi assumersi le proprie responsabilità, rischiare per qualcosa in cui si crede e portare avanti un progetto, a qualsiasi costo...
Vista la trama decisamente piena di spunti e la narrazione che ci fa respirare un periodare d'altri tempi, abbiamo intervistato l'autrice, che ringraziamo per la sua disponibilità e per averci mandato queste bellissime fotografie d'epoca.
Serena Patrignanelli |
Raccontare da vicino la storia dei nostri nonni: quali accortezze dobbiamo sempre avere? E quanto possiamo invece concedere alla fantasia?
Direi che bisogna trovare la misura, io inizialmente ero portata a privilegiare i ricordi diretti, ma mano a mano i personaggi hanno preso una loro identità autonoma, così gli aneddoti “reali” che avevo inserito risultavano deviazioni dalla storia principale e ho iniziato a toglierli. Però hanno lasciato un’eco, credo, nelle atmosfere, nel linguaggio, nell’aspetto delle stanze e nella geografia delle strade. Alla fine, non ho raccontato esattamente i ricordi di nessuno, ma la forma delle storie coincide con la forma che hanno i ricordi, i luoghi sono raccontati coi sensi più che con l’oggettività di un romanzo storico.
La fine dell’estate guarda da vicino il mondo dei ragazzini, con le loro ingenuità e le loro intuizioni geniali. È stato difficile narrare la storia di Augusto e di Pietro?
Be’ considerando quanto tempo ci ho messo per arrivare in fondo, direi di sì! Credo che la difficoltà fosse stare dentro il panorama mentale di ragazzini così giovani, non potevo usare metafore eterogenee rispetto al loro mondo, dovevo rinunciare a parole che a una voce narrante farebbero molto comodo, ma che i ragazzini non possono utilizzare, né dare spazio a tutta una serie di riflessioni, perché prima di una certa età ci sono cose che non si iniziano proprio a vedere.
Nel romanzo Virginia è una ragazzina a lungo segregata in casa dal padre, che prova l’unica via di libertà che le è concessa: quella della fantasia. Forse per questo poi la sua fame del mondo si placa tanto in fretta?
Costruendo Virginia ho cercato di immaginare come succede che un certo tipo di persona, bloccata, inchiodata ad un carattere problematico di cui non riesce a liberarsi, diventi se stessa. Ci dev’essere stato un momento in cui i ragazzini che eravamo sono diventati gli adulti incorreggibili che siamo diventati: volevo trovare quel momento, in cui ci incateniamo a un ruolo che porteremo avanti per tutta la vita. Nel caso di Virginia è questo che succede: è finalmente libera e ha la possibilità di essere chiunque, ma il modo in cui ha vissuto per tutta l’infanzia la porta a ricreare lo stesso schema, ad arrendersi, a rinchiudersi in un nuovo tipo di segregazione.
Tra le foto di famiglia di Serena, una festa simile a quella narrata all'inizio del romanzo. |
È stato uno degli elementi da cui sono partita, venuto fuori da una serie di spunti diversi. Per prima cosa, nei racconti dei miei nonni di cui dicevamo prima gli adulti non c’erano mai, quindi mi veniva naturale guardare il mondo narrativo solo da quell’altezza. Poi mi era rimasta in testa l’intervista ormai famosissima di Wallace, in cui descriveva la generazione di autori di cui faceva parte come un gruppo di ragazzi che stanno facendo una festa colossale, approfittando dell’assenza dei genitori, e a un certo punto le cose si fanno così selvagge che quasi iniziano a desiderare che qualcuno torni a dargli delle regole, finché si rendono conto che non tornerà proprio nessuno, che è arrivato il momento in cui devono essere loro, i genitori. Lui si riferiva a un contesto molto preciso che non ha niente a che fare con me, ma la metafora della festa mi era sembrata potentissima, con mio marito (che me l’aveva fatta leggere e che non era ancora mio marito, ma un mio compagno di scuola) ne avevamo parlato tantissimo. E allo stesso tempo mi sembrava che la nostra generazione si trovasse in una situazione in qualche modo simile, non avevamo perso i nostri genitori, ma dopo la crisi del 2008 il contesto economico e sociale era così cambiato che le persone che fino a quel momento ci avevano guidato non potevano più aiutarci, i loro consigli valevano in un mondo che non esisteva più: dovevamo fare da soli.
Mi è sembrato che raccontare quel momento in cui capisci che nessuno verrà a indicarti la strada, che tu e i tuoi compari disarmati e confusi adesso siete al comando, poteva essere un modo per avvicinare la memoria al presente, guardare epoche diverse da un punto di vista comune.
La fine dell'estate di Serena Patrignanelli NN editore, 2019 pp. 352 LEGGI LA RECENSIONE |
L’amore, nel romanzo, è presente, ma assume perlopiù la forma di un turbamento appena accennato, senza un nome preciso. L’amicizia invece è il vero filo rosso che congiunge tante storie della Fine dell’estate. Avevi deciso fin dall’inizio di privilegiare l’amicizia?
In effetti la primissima volta che ho pensato a questa storia avevo in mente di raccontare il rapporto tra due amici, immaginavo in realtà di ritrovarli poi adulti, vedere come anche le relazioni più importanti subiscano la potenza del tempo, fino a diventare qualcosa di irriconoscibile. Così, anche quando ho deciso di circoscrivere la storia all’infanzia, il nucleo è rimasto lo stesso. Per questo, credo, l’amicizia ha una centralità maggiore: nel romanzo l’amicizia è il presente, l’amore invece è un’anticipazione di come il futuro sarà in grado di cambiare radicalmente il modo in cui i personaggi stanno al mondo.
Il Quartiere è lasciato senza un nome preciso: perché questa scelta?
Ha a che fare con quella ricerca dell’equilibrio tra ricostruzione storica, testimonianza e invenzione. Non mi interessava raccontare un tempo o un luogo precisi, ma la sensazione di quel tempo e di quel luogo, filtrata dal lavoro di falsificazione e cristallizzazione che operano i ricordi. Quindi ho eliminato tutti i riferimenti precisi: l’ambientazione si intuisce, ma non è mai dichiarata. Il Quartiere è l’immagine mentale di un luogo, che somiglia ma non coincide perfettamente col posto reale.
La costruzione della macchina a gasogeno è la vera evasione concessa alla fantasia vulcanica dei due piccoli protagonisti: come è nata l’idea e come l’hai sviluppata?
Molti anni fa mio nonno mi ha consegnato le memorie di un suo amico. Sono una decina di pagine che questo suo amico ha scritto a ottant’anni, credo fossero addirittura ciclostilate. Non
so esattamente perché me le abbia date, è vero che in quel periodo l’avevo interrogato spesso sul suo passato, prendevo appunti eccetera, ma era per un piccolo progetto che quando mi ha dato quelle memorie era finito, e lui lo sapeva, non gli avevo mai detto che avessi intenzione di scrivere un romanzo come quello che ho scritto. Non gli ho mai spiegato che lavoro facessi o quale avessi intenzione di fare, e certo non abbiamo mai parlato di scrittura. Era più interessato alla regolarità dei contratti, al fatto che non ci fossero Principali a fare i soldi sulla nostra pelle, mi dava consigli pratici, una volta addirittura mi ha detto “non semo gente noi che po’ fa er cinematografo”, intendendo che era meglio che mi concentrassi su un lavoro stabile – frase che metaforicamente, tra l’altro, era giustissima e avrei dovuto capirla al volo. Ma evidentemente comunicavamo su un piano che nemmeno io comprendo del tutto, perché un giorno mi ha dato quelle memorie, anche con una certa aria solenne. Contenevano moltissimi spunti, e si parlava anche del motore Ferraguti, che è appunto il motore a gasogeno.
Ce ne puoi parlare?
Era un tipo di motore in cui ai tempi della seconda guerra mondiale si è creduto molto, perché era alimentato a carbone o legna anziché a benzina – a quei tempi la benzina era merce rare. In generale, i rami morti della tecnologia mi affascinano moltissimo e mi fanno tanta tenerezza, l’idea che a un certo punto delle persone si siano convinte che il mondo sarebbe andato da una parte, e invece poi no, per niente: il motore a gasogeno è stato così. Un’invenzione che per un breve periodo pareva il futuro, e invece oggi è a malapena un pezzo di passato. Mi sembrava un elemento perfetto per dare forma a un racconto sull’infanzia e sul passaggio all’età adulta, appunto il momento in cui realizzi che quello che credevi di sapere sul mondo e sul tuo futuro era solo un abbaglio.
Il tuo romanzo, accanto all’avventura e alla storia, ha certamente al centro la formazione dei protagonisti e dei loro amici. Diventare grandi comporta sempre perdite e arricchimenti: quale delle due cose ha avuto la meglio nelle vite di Augusto e Pietro?
Forse è un insieme delle due cose, perdita e arricchimento. Credo che diventare adulti significhi anche accettare i limiti del proprio modo di vedere il mondo, e di quello degli altri. Penso che Pietro, soprattutto, inizi nel corso di questa storia a considerarsi onestamente, ad abbracciare anche parti di sé che con un sistema morale rigido come quello che si ha da ragazzini verrebbe spontaneo rifiutare. Augusto, che invece ha tutte quelle certezze su cos’è giusto e cosa sbagliato, fa più fatica, ma è costretto pure lui a mettere da parte i suoi schemi. Il che è una perdita, ma è anche l’unico modo per diventare adulti.
Serena Patrignanelli |
Il tuo romanzo ha ricevuto la menzione speciale al Premio Calvino 2017: quali ricordi hai di quel periodo? È stato determinante il premio per introdurti nel mondo editoriale?
È stato un momento bellissimo da vivere. Ricordo il giorno in cui mi hanno chiamato per comunicarmelo: la cosa che per anni era stata solo questione di autosuggestione all’improvviso era vera. Quando scrivi il tuo primo romanzo non stai scrivendo il tuo primo romanzo fino a che non lo pubblichi: stai solo impiegando moltissime energie per fare una cosa che nessuno sa, e potenzialmente nessuno leggerà mai. Ci vuole moltissima tenacia per dare a questa specie di hobby del niente lo spazio necessario per arrivare in fondo, e quando il telefono ha squillato e dall’altra parte c’era una persona che aveva letto il romanzo, e lo chiamava romanzo, è stato come togliere una coperta che aveva tenuto nascosti e asfissiati tutti i miei anni di lavoro. Inoltre il Calvino mi ha fatto incontrare delle persone splendide che oggi fanno parte della mia vita. Questo sul piano personale e soggettivo, poi è un’occasione incredibile anche su quello professionale. Le case editrici sono inondate di manoscritti, eppure quelli inviati dal Calvino vengono sempre letti.
Senza rivelare troppo per non andar contro la giusta scaramanzia degli scrittori ma… hai in mente qualche nuovo progetto?
Al momento non lavoro a niente in particolare. Prendo molti appunti mentali organizzati in tre aree, ma cosa formino queste tre aree, e perché siano tre, non saprei dirlo. Però ecco. Non credo di smettere.
Intervista a cura di Gloria M. Ghioni
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