Le impressioni di Berthe
di Stella Stollo
Graphofeel Edizioni, 2018
pp. 298
€ 18,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Furono giorni frenetici quelli del 2, 3 e 4 marzo 1896 presso la Galleria parigina di Durand-Ruel. Giorni di allestimento, ferventi di preparativi. Giorni in cui per le sale si aggiravano personaggi quali Auguste Renoir, Edgar Degas, Claude Monet e Stéphane Mallarmé, tutti ugualmente indaffarati per celebrare l’amica e collega Berthe Morisot organizzando in suo onore la prima retrospettiva a un anno dalla morte prematura. Mossi da un rispetto profondo, aiutati dalla figlia Julie e dalla sorella Edma, gli artisti disposero con cura quasi quattrocento tra dipinti a olio e acquerelli; il poeta avrebbe poi scritto la prefazione al catalogo. La presenza impalpabile di Berthe, così benvoluta da tutti, aleggiava tra le sale come il profumo delle violette da lei tanto amate: ed era come se ogni lavoro appeso alla parete fosse l’occasione perfetta per ricordarla come donna e come pittrice, in un’altalena del tempo oscillante senza posa. Inizia in questo modo, con lo svelamento immediato dell’espediente narrativo, Le impressioni di Berthe, il romanzo di Stella Stollo pubblicato da Graphofeel Edizioni dedicato alla pioniera francese del movimento figurativo che cambiò per sempre il nostro modo di vedere e interpretare l’arte.
A riferire le cose con maggiore precisione, il romanzo vero e proprio è fatto precedere dallo stralcio di un articolo comparso su “Le Figaro” il 3 aprile 1876, e contenente un giudizio a dir poco tranchant proprio sul neonato movimento:
Mademoiselle Morisot, difatti, non desidera altro che dipingere. Ma non, come fanno le signorine della buona società, per la soddisfazione dei genitori e dei parenti: Berthe, convinta che l’emancipazione si conquisti attraverso i libri, la lettura e lo studio, vuole che la pittura sia la sua professione, la ragione del suo stare al mondo, il motivo per cui essere nominata in pubblico, e prima che ciò accada è disposta a opporre una strenua resistenza contro ogni compromesso, specialmente quello matrimoniale: perché sul certificato, accanto alla professione del futuro marito, dovrà esserci scritto a chiare lettere “Berthe Morisot, pittrice” e non “Berthe Morisot, casalinga”. Per questo, anche nel momento in cui accetterà di sposare il caro Eugène, uomo tanto innamorato quanto illuminato, lo farà nella convinzione che forse quelle nozze potranno renderla ancora più autonoma e libera. Così sarà, difatti, e Stella Stollo ne dà conto passo per passo, con i giusti stratagemmi narrativi a rendere il romanzo molto più che il semplice racconto di un percorso di formazione artistica e sentimentale. L’andamento, proprio come accade nello stile impressionista, è mosso, fluttuante: i salti in avanti e indietro lungo l’arco temporale, e soprattutto la focalizzazione multipla, con il narratore onnisciente sapientemente alternato alla voce dei vari protagonisti (in pensieri ed epistole), invitano il lettore a osservare la vicenda sia nei dettagli sia nel suo insieme, per poi riassumerne autonomamente tutte le giustapposizioni narrative; come farebbe l’occhio, per l’appunto, al cospetto di un Renoir o di un Monet. Anzi: al cospetto di un Morisot.
Così, anche nella descrizione del triangolo amoroso tra la già corteggiatissima Berthe e i fratelli Manet, Stella Stollo mette al centro il ruolo della pittura, riuscendo a tratteggiare la complementarità dei caratteri di Édouard e di Eugène. Se è vero che, anche dietro suggerimento del primo, sarà il secondo a metterle la fede al dito, la tormentata passione nei confronti dell’autore di dipinti scandalo come Olympia e Le déjeuner sur l’herbe domina l’animo della giovane donna, che prima di ogni altra pulsione ne ammira l’opera – al punto da sentirsi «colpita da dardi di luce» (p. 24) al suo cospetto – e che tante volte, non riuscendo a divenirne allieva (a differenza di Eva Gonzales), sarà per lui modella e musa. Nel descrivere il loro sodalizio, Stella Stollo da vità alle sue pagine più belle, più ispirate e finanche più sensuali, in cui l’impossibilità di un approccio diretto esaspera la tensione erotica delle sedute di posa; momenti che resteranno per sempre nella memoria di entrambi, pur nella quasi totale assenza di parole: «il silenzio e il linguaggio delle grandi passioni, dice il poeta italiano, dell’amore, della meraviglia, dell’ira, della paura. Come dire: è il linguaggio del nostro rapporto» (p. 223). Così, mentre Édouard mira a farle i ritratti che le avrebbe fatto Goya se l’avesse incontrata e si innamora più della sua anima che del suo aspetto – «non era tanto l’innegabile bellezza di quegli occhi verdi a turbare Manet, bensì ciò che di volta in volta effondevano: talora un vago senso di malinconia, talatra una solitudine feroce e fiera di sé» (p. 64) – Berthe sperimenta a propria volta il potere del proprio ascendente sull’uomo che più ammira al mondo – «lo stesso desiderio lo sento io per il suo sguardo abbandonato per ore sul mio corpo, per la complicità dei nostri pensieri che riempie l’aria» (p. 97). Perché a unirli, fin dal primo incontro nella Galleria de’ Medici del Museo del Louvre nell’estate del 1868, in cui lui osserva lei e la sorella Edma come se fossero «animali esotici» (p. 19), è la “dolceamara invincibile belva” dell’arte:
Cecilia Mariani
di Stella Stollo
Graphofeel Edizioni, 2018
pp. 298
€ 18,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Furono giorni frenetici quelli del 2, 3 e 4 marzo 1896 presso la Galleria parigina di Durand-Ruel. Giorni di allestimento, ferventi di preparativi. Giorni in cui per le sale si aggiravano personaggi quali Auguste Renoir, Edgar Degas, Claude Monet e Stéphane Mallarmé, tutti ugualmente indaffarati per celebrare l’amica e collega Berthe Morisot organizzando in suo onore la prima retrospettiva a un anno dalla morte prematura. Mossi da un rispetto profondo, aiutati dalla figlia Julie e dalla sorella Edma, gli artisti disposero con cura quasi quattrocento tra dipinti a olio e acquerelli; il poeta avrebbe poi scritto la prefazione al catalogo. La presenza impalpabile di Berthe, così benvoluta da tutti, aleggiava tra le sale come il profumo delle violette da lei tanto amate: ed era come se ogni lavoro appeso alla parete fosse l’occasione perfetta per ricordarla come donna e come pittrice, in un’altalena del tempo oscillante senza posa. Inizia in questo modo, con lo svelamento immediato dell’espediente narrativo, Le impressioni di Berthe, il romanzo di Stella Stollo pubblicato da Graphofeel Edizioni dedicato alla pioniera francese del movimento figurativo che cambiò per sempre il nostro modo di vedere e interpretare l’arte.
A riferire le cose con maggiore precisione, il romanzo vero e proprio è fatto precedere dallo stralcio di un articolo comparso su “Le Figaro” il 3 aprile 1876, e contenente un giudizio a dir poco tranchant proprio sul neonato movimento:
«…cinque o sei alienati, fra cui una donna, un gruppo di sventurati presi dalla follia dell’ambizione… questi sedicenti artisti si definiscono gli intransigenti, gli impressionisti, prendono tele, colori e pennelli, buttano giù qualche tono a casaccio e firmano il risultato» (p.7).Alla luce di come andarono poi le cose, con gli impressionisti che ancora oggi si confermano tra gli artisti più amati della storia, l’autrice non poteva forse scegliere un’epigrafe migliore. Senza contare che il caso di Berthe, così fuori dalle righe (anzi fuori “dai contorni”) rispetto alle convenzioni sociali e culturali del suo tempo, fu gravato da ulteriori ostacoli e pregiudizi derivanti dal suo essere una donna, per giunta una donna della buona borghesia: una ragazza da marito, dunque, alla quale, come da tradizione, sarebbe stato offerto poco altro rispetto alle gioie del matrimonio e della maternità. E nemmeno deve trarre in inganno il fatto che il libro si apra e si chiuda circolarmente nel giugno del 1874, con il ricordo della festa di fidanzamento di Berthe e Eugène Manet, fratello del più noto e amato Édouard che tanta parte ebbe nella sua educazione artistica e sentimentale: perché è all’interno di quella doppia parentesi che sta il vero cuore della vicenda, con l’amore per l’uomo che diventerà suo marito subordinato sia alla passione impossibile per il futuro cognato sia, soprattutto, alla propria vocazione per l’arte.
Mademoiselle Morisot, difatti, non desidera altro che dipingere. Ma non, come fanno le signorine della buona società, per la soddisfazione dei genitori e dei parenti: Berthe, convinta che l’emancipazione si conquisti attraverso i libri, la lettura e lo studio, vuole che la pittura sia la sua professione, la ragione del suo stare al mondo, il motivo per cui essere nominata in pubblico, e prima che ciò accada è disposta a opporre una strenua resistenza contro ogni compromesso, specialmente quello matrimoniale: perché sul certificato, accanto alla professione del futuro marito, dovrà esserci scritto a chiare lettere “Berthe Morisot, pittrice” e non “Berthe Morisot, casalinga”. Per questo, anche nel momento in cui accetterà di sposare il caro Eugène, uomo tanto innamorato quanto illuminato, lo farà nella convinzione che forse quelle nozze potranno renderla ancora più autonoma e libera. Così sarà, difatti, e Stella Stollo ne dà conto passo per passo, con i giusti stratagemmi narrativi a rendere il romanzo molto più che il semplice racconto di un percorso di formazione artistica e sentimentale. L’andamento, proprio come accade nello stile impressionista, è mosso, fluttuante: i salti in avanti e indietro lungo l’arco temporale, e soprattutto la focalizzazione multipla, con il narratore onnisciente sapientemente alternato alla voce dei vari protagonisti (in pensieri ed epistole), invitano il lettore a osservare la vicenda sia nei dettagli sia nel suo insieme, per poi riassumerne autonomamente tutte le giustapposizioni narrative; come farebbe l’occhio, per l’appunto, al cospetto di un Renoir o di un Monet. Anzi: al cospetto di un Morisot.
Così, anche nella descrizione del triangolo amoroso tra la già corteggiatissima Berthe e i fratelli Manet, Stella Stollo mette al centro il ruolo della pittura, riuscendo a tratteggiare la complementarità dei caratteri di Édouard e di Eugène. Se è vero che, anche dietro suggerimento del primo, sarà il secondo a metterle la fede al dito, la tormentata passione nei confronti dell’autore di dipinti scandalo come Olympia e Le déjeuner sur l’herbe domina l’animo della giovane donna, che prima di ogni altra pulsione ne ammira l’opera – al punto da sentirsi «colpita da dardi di luce» (p. 24) al suo cospetto – e che tante volte, non riuscendo a divenirne allieva (a differenza di Eva Gonzales), sarà per lui modella e musa. Nel descrivere il loro sodalizio, Stella Stollo da vità alle sue pagine più belle, più ispirate e finanche più sensuali, in cui l’impossibilità di un approccio diretto esaspera la tensione erotica delle sedute di posa; momenti che resteranno per sempre nella memoria di entrambi, pur nella quasi totale assenza di parole: «il silenzio e il linguaggio delle grandi passioni, dice il poeta italiano, dell’amore, della meraviglia, dell’ira, della paura. Come dire: è il linguaggio del nostro rapporto» (p. 223). Così, mentre Édouard mira a farle i ritratti che le avrebbe fatto Goya se l’avesse incontrata e si innamora più della sua anima che del suo aspetto – «non era tanto l’innegabile bellezza di quegli occhi verdi a turbare Manet, bensì ciò che di volta in volta effondevano: talora un vago senso di malinconia, talatra una solitudine feroce e fiera di sé» (p. 64) – Berthe sperimenta a propria volta il potere del proprio ascendente sull’uomo che più ammira al mondo – «lo stesso desiderio lo sento io per il suo sguardo abbandonato per ore sul mio corpo, per la complicità dei nostri pensieri che riempie l’aria» (p. 97). Perché a unirli, fin dal primo incontro nella Galleria de’ Medici del Museo del Louvre nell’estate del 1868, in cui lui osserva lei e la sorella Edma come se fossero «animali esotici» (p. 19), è la “dolceamara invincibile belva” dell’arte:
«era inevitabile, Berthe, siamo inguaribilmente artisti, anche nel mondo di tracciare ed intrecciare le nostre vite. Abbiamo disegnato le nostre strade in modo che si dovessero incrociare. Tutto accade: siete assolutamente indispensabile alla mia arte, e io alla vostra» (p. 69).Con Le impressioni di Berthe Stella Stollo ha scritto il romanzo che ancora non c’era sull’esistenza e sull’opera della Morisot donna e pittrice. Lo ha fatto senza leziosità e senza concessioni ideologiche, ovvero senza usare la figura dell’artista come pretesto per veicolare messaggi polemici per i quali sarebbe stata più adeguata la forma della monografia, del saggio, eventualmente della biografia tout court. Nel raccontarci la storia di una fanciulla borghese innamorata dell’arte, e che si trovò a vivere in qualità di pioniera uno degli snodi più rivoluzionari dell’estetica moderna, l’autrice ha messo l’accento sulle passioni del personaggio, restituendocene un ritratto a tutto tondo in cui è figlia, sorella, amica, amante (e poi anche moglie e madre) ma soprattutto collega. Per questa ragione, il principale espediente narrativo risulta particolarmente indovinato: se gli episodi della vita di Berthe vengono sempre rievocati a partire da un dipinto, è per sottolineare come la memoria di lei risieda e debba risiedere nei suoi lavori prima ancora che nelle sue tormentate vicende sentimentali in relazione ai più noti fratelli Manet. Perché è la dedizione alla pittura che sempre la salvò dalle brutture delle stare al mondo, e dunque dalla solitudine, dalla guerra e addirittura dal lutto per la scomparsa delle persone più care: al momento delle prime vendite sta per diventare orfana di padre, mentre quando affronta la sua mostra personale del 1892 (la prima mai allestita da un’artista donna) è da poco diventata vedova. Stella Stollo non arriva a raccontarne il momento della morte: quella viene resa nota sola in coda, con poche altre considerazioni formulate fuor di finzione. Ciò che più interessa alla scrittrice è restituire un “ritratto dell’artista da giovane”, quello di una donna ribelle alle convenzioni del suo tempo e del suo status, anche lei desiderosa di tutto fuorché di “servire”, nata per lasciare ai posteri una pittura che, come avrebbe detto l’amico Mallarmé, fosse una mescolanza perfetta «di furia e nonchalance» (p. 111).
Cecilia Mariani