Una volta è abbastanza
di
Giulia Ciarapica
Rizzoli,
2019
pp.
365
€ 19
(cartaceo)
€ 9,99
(ebook)
Ci sono due motivi per cui Valentino, tra tutte le donne che lo corteggiavano, prima di partire per la guerra aveva scelto di stare con lei: primo, perché Annetta è dinamica e coraggiosa, non ha paura di nessuno e fiuta sempre l’occasione giusta; secondo, perché ha il fascino provocatorio della donna indipendente. (p. 33)
Insieme
ad altre motivazioni che espliciterò più avanti, sono stati passaggi questo come questo, fin troppo frequenti,
che mi hanno portato a interrompere la lettura del romanzo d’esordio di Giulia
Ciarapica, classe 1989, nota blogger culturale per l’Huffington Post e autrice
per Il Messaggero e Il Foglio.
Il
testo, primo di una trilogia familiare che non può non richiamare gli echi
della saga dell’Amica geniale diElena Ferrante (e/o edizioni), rispetta perfettamente i canoni di quello che si
può definire un romanzo di formazione generazionale e territoriale: la
narrazione segue da vicino sia gli sviluppi dei protagonisti, che incontriamo
giovani appena dopo la guerra e che, al termine del terzo libro, alle soglie dei nostri anni Dieci, ritroveremo verosimilmente anziani, sia quelli del
territorio di Casette d’Ete, un paesino nell’entroterra marchigiano nel quale
la stessa autrice è nata.
Poco
o nulla si può dire sulla trama, piuttosto classica – persino l’incipit rientra
nel canone di cui prima: volo d’uccello sul presente, in cui
troviamo Valentino, uno dei protagonisti, anziano, e poi tuffo nel giugno del
1945 – e che non riserva grandi sorprese. D’altronde, si può obiettare, non è
sulla suspense o sul colpo di scena che contano i romanzi di formazione e
quelli generazionali, bensì sull’attaccamento ai personaggi, alle situazioni,
ai luoghi; insomma, questo genere di storie fa leva sull’immedesimazione, sui sentimenti, sulla prepotenza della
nostalgia, qualcosa che non si può non provare quando si parte con personaggi
nel fiore dell’età e li si ritrova adulti, con figli e nipoti, poi canuti.
Questo
genere di romanzi fa leva anche sullo stile narrativo, ché esclusi gli altri elementi
letterari ciò che resta è la capacità dello scrivente di incatenare non solo
gli occhi, ma anche i pensieri, le emozioni, le viscere (qualcuno direbbe: il
cuore) del lettore. Punta, insomma, sulla capacità di sospendere
l’incredulità e sul proiettare nei personaggi e nei loro vissuti tutte le
speranze e i timori, la bellezza e l’orrore, l’amore e l’odio di chi legge.
Uscendo dalla terza persona, posso riscrivere quanto detto in questo modo: io
posso, devo – e dunque voglio –
immedesimarmi, soffrire e divertirmi con i protagonisti, deve mancarmi un
battito per una qualche situazione orribile capitata ad Annetta o alla sorella
Giuliana; questo a me non è capitato, e la risposta che do a tutto questo è
che le meccaniche narrative risultano troppo evidenti, come se qualcuno, anziché mostrarmi la vita delle
sorelle Verdini nei territori brulli di Casette d’Ete in quel primo dopoguerra,
avesse prima voluto prima descriverle, per poi entrare nella narrazione vera e
propria ("attenzione, lettore: questo personaggio è fatto così, ha questo carattere, quindi quando ti racconto quello che fa ricordati che lei/lui si comporta spesso così").
Un
altro elemento piuttosto fastidioso del testo – ma qui la colpa non ricade
sull’autrice, bensì su chi ha portato avanti l’editing – è l’incoerenza
normativa sull’uso di accenti e apostrofi, di cui si fa
necessariamente largo uso avendo a che fare col dialetto: laddove i
troncamenti richiederebbero di prassi l’apostrofo, nel romanzo si trova
un’alternanza non meglio specificata (se non per mere questioni grafiche) di
apostrofi e accenti, questi ultimi a volte anche fuori posto. Riporto pochi
esempi: «Oh, moro, guarda che se ne sono già accorti tutti, stanno a ridé» (p.
60; qui l’accento dovrebbe ricadere sulla i, e in ogni caso perché la e è stata chiusa?); «Tu stai a vedè, tra poco piove (p. 21; qui, invece, la e avrebbe
dovuto essere chiusa e invece risulta aperta); «Ma perché ti sei ficcato là sotto, che stai a
combina’?» (p. 57; qui al posto dell’accento abbiamo l’apostrofo, eppure il
troncamento è identico ai due casi precedenti).
Una volta è abbastanza ha il grande pregio di mostrare i
luoghi e i tempi di un’Italia sparita, fatta di lavori artigianali, tradizioni popolari e costumi locali esistiti prima della diffusione della
televisione e dei mezzi di comunicazione di massa, agli albori della nostra
repubblica, quando i segni della guerra ancora devastavano le campagne e le
città. La scrittura di Ciarapica, tuttavia, sembra ancora non completamente
adulta, e forse è proprio per questa immaturità che qua e là nel testo sono
rimaste le tracce di una sorta di architettura di supporto, come quelle travi
in legno usate a sostegno degli archi, e che poi vengono rimosse una volta
completata (e stabilizzata) la struttura.
David
Valentini