Da poche settimane in libreria, I fratelli Michelangelo è il nuovo romanzo di Vanni Santoni (lo abbiamo recensito qui): l'autore ha scelto di frequentare il genere intramontabile del romanzo familiare, ma con importanti ibridazioni contemporanee... Ecco allora che i suoi personaggi (quattro fratelli / fratellastri, non tutti a conoscenza degli altri) prendono la parola in sezioni a loro dedicate, in attesa di scoprire cosa ha in serbo per loro lo stravagante padre di famiglia, Antonio Michelangelo.
Per approfondire alcune delle scelte narrative decisamente interessanti, abbiamo intervistato Vanni Santoni!
E quali sono state le prime immagini dei Fratelli Michelangelo?
Lasciando da parte il pubblico, veniamo alle abitudini e ai tuoi “vizi” di scrittura: come hai lavorato a un romanzo così impegnativo?
Dopo aver esplorato campi dell’irrealtà nei precedenti romanzi (ad esempio La stanza profonda e L'impero del sogno), eccoci alle prese con un romanzo familiare, realistico per quanto a volte in modo divertito poco verosimile. Come è nata l’idea dei Fratelli Michelangelo?
Mi sono formato, da lettore, anzitutto coi grandi romanzi ottocenteschi, quindi ho sempre avuto il sogno di dar vita io stesso a una narrazione di grande respiro, proprio come i libri che mi avevano portato ad amare la letteratura. Inoltre mi affascinava l’idea di una vicenda che si svolgesse ai quattro angoli del mondo. Già nel 2009, dopo il mio primo romanzo Gli interessi in comune, che era corale e realistico come questo, benché di dimensioni (e ambizioni) minori, avevo accarezzato l’idea di fare qualcosa del genere, ma non avevo ancora l’esperienza e le capacità necessarie, e quel progetto fu accantonato. Fu nel 2012, dopo Se fossi fuoco arderei Firenze, che mi sentii pronto per riprovarci e cominciai quello che poi divenne I fratelli Michelangelo.
Quando si lavora a un romanzo di pura “literary fiction” come questo, si procede in modo molto diverso rispetto agli ibridi come Muro di casse o La stanza profonda, dove il lavoro di scrittura è anticipato da una fase di studio di fonti, materiali e altri testi sul tema trattato, e anche rispetto a un romanzo avventuroso (che sia fantastico o meno), dove si può cominciare ad articolare uno storyboard già abbastanza presto. Con la fiction letteraria è tutto un altro discorso: si intercettano singole immagini, visioni, idee ancora vaghissime e si comincia a costruirci sopra, onde vedere se recano da qualche parte. Si prendono un sacco di vicoli ciechi prima di trovare quelle giuste.
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Le prime immagini attorno a cui ha cominciato a coagularsi il libro sono state tre: in una c’era un tale che andava a trovare un suo amico nel carcere di un qualche paese in via di sviluppo, e scopriva, non senza orrore, che gli avevano spaccato tutti i denti; nella seconda c’era un ragazzo che si metteva a catalogare la propria biblioteca, ripensando a quando aveva letto o acquistato o ricevuto in regalo ciascun libro, e come quei libri avevano plasmato la sua idea di sé; nella terza si aveva una dottoressa di un certo rango, forse una primaria, che alla fine di una giornata di lavoro diceva alla caposala di lasciarla tranquilla, si stendeva su un lettino e si faceva un’inframuscolo con la ketamina dell’ospedale. La prima scena è diventata l’attacco della parte di Louis Michelangelo, che va a trovare l’amico e socio Carletto in galera; la seconda la ritroviamo, ridotta e modificata, nella parte di Enrico Michelangelo; dalla terza è nato il personaggio di Aurelia Michelangelo, che è infatti primario di gastroenterologia, anche se poi la sua figura ha preso un carattere di rigore tale da rendere del tutto implausibile l’ipotesi che potesse sottrarre farmaci all’ospedale per farne uso voluttuario, così la scena è scomparsa, ma comunque da lì è germinato un personaggio chiave del libro: l’unica, tra i figli di Antonio Michelangelo, a rifiutare l’invito del padre a raggiungerlo a Vallombrosa. Continuando a scrivere, quell’anno nacquero gli embrioni dei personaggi di Cristiana e Rudra, ma non ancora il padre. Dovendo scrivere altre cose, ripresi il libro nel 2015, dopo l’uscita di Muro di casse, e ci lavorai un altro anno. Lì Antonio Michelangelo, la cui chiamata inizialmente doveva essere per lo più un pretesto per poi raccontare le vite dei figli attraverso vari ambiti del mondo contemporaneo, cominciò a prendersi spazio, specie attraverso le vite di Rudra e Cristiana, i due figli cresciuti da lui, in cui inevitabilmente apparivano frammenti della sua biografia. Interruppi poi i lavori per mettermi sulla Stanza profonda, e nel 2017 l’ho finalmente ripreso, Antonio Michelangelo ne è diventato a pieno titolo il quinto protagonista, e non ho fatto altro per due anni, giorno e notte, quindi in totale ci sono voluti sì sette anni, ma quelli di lavoro effettivo sono stati quattro.
Oltre ad alcune caratteristiche del genere, riprendi anche una mole notevole, da romanzo ottocentesco, spruzzando il romanzo però di ironia e sarcasmo assolutamente moderno. Non temevi la reazione del pubblico davanti alle seicento pagine del romanzo?
Anche quando si fa riferimento a un certo tipo di modello, credo che non si debba mai tornare indietro: modernismo e postmodernismo sono esistiti e ci hanno fornito nuovi dispositivi stilistici, formali e strutturali, che sono belli e utili da usare. Così nei Fratelli Michelangelo c’è un sacco di flusso di coscienza, ci sono elementi paratestuali, intertestuali e metatestuali – e, sì, credo che ci sia un piglio ironico e paradossale che è certamente contemporaneo, del resto il romanzo è ambientato nel 2007 e deve “stare nel suo tempo”.
Per quanto riguarda la lunghezza, sì, le seicento e passa pagine mi preoccupavano un poco, anche per via di un mercato editoriale fattosi molto veloce: un libro così lungo avrebbe avuto il tempo di trovare il suo pubblico? Di essere letto e recensito in tempo?
E invece… Invece l’arrivo in libreria dei Fratelli Michelangelo è stato ben accolto: segno che i lettori italiani hanno voglia di romanzi di più ampio respiro?
Sì, per fortuna il libro ha destato molto interesse sia nel pubblico che nella critica fin da subito, e ciò forse anche grazie alla sua mole; quando poi alle prime presentazioni, a Milano e Torino, ho incontrato lettori che mi hanno detto di averlo letto in tre o quattro giorni, ho tirato più di un sospiro di sollievo.
È vero che la grande editoria, oggi, sembra voler puntare su romanzi piuttosto brevi, ma in realtà i lettori di narrativa cercano anche l’immersività, e quindi la lunghezza può trasformarsi in un punto di forza: pensiamo a best-seller lunghissimi come Il cardellino di Donna Tartt o Shantaram di Gregory David Roberts, o a capolavori entrati nel canone e divenuti long-seller come 2666 di Roberto Bolaño o Infinite Jest di David Foster Wallace, o ancora a romanzi massimalisti come Le Benevole di Littel o Abbacinante di Cărtărescu, che nei loro paesi sono stati anche grandi successi commerciali.
Hai letto qualche romanzo-fiume negli ultimi mesi? Se sì, ce ne consigli uno?
Negli ultimi mesi, dovendo lavorare alla “finitura” dei Fratelli Michelangelo, ho fatto per lo più riletture: I Buddenbrook, i Karamazov, Cent’anni di solitudine… Sono tornato su tutte le grandi saghe familiari che avevo letto e amato in passato, e ho riletto, o forse è meglio dire ristudiato, anche i vari testi sacri che formano l’ossatura simbolica del libro – la Bhagavad-Gītā, le Scritture, il Vivekachuḍāmaṇi… Tra le novità, non so se si qualifica come romanzo-fiume, ma ho trovato molto interessante Sogni di Mevlidò, il nuovo Volodine, ho accolto con gioia il ritorno in libreria di quel catalogo di stramberie che è Il libro dei mostri di J. Rodolfo Wilcock, e amato Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio.
Quando insegno scrittura ho due mantra: dieta (ovvero le letture) e disciplina, dieta e disciplina, dieta e disciplina. Nei quattro anni “attivi” in cui ho scritto I fratelli Michelangelo non ho mai mancato un giorno di scrittura e non ho mai fatto meno delle pagine attese ogni giorno, anche a costo di fare l’alba davanti allo schermo. Questo però vale anche per i miei altri libri; ciò che c’è stato in più qua, è stato tanto lavoro di schematizzazione: ho cominciato, come dicevo, da singole immagini, ma poi, quando il libro ha cominciato a “vedersi” e i personaggi a muoversi, per far tornare tutti i livelli simbolici su cui agisce il romanzo, e tutti gli intrecci, dato che la narrazione si muove su cinque voci narranti e una dozzina almeno di diversi piani temporali, ho dovuto realizzare diverse centinaia di schemi e diagrammi, di cui mi circondavo nel tentativo di avere tutto presente, un po’ come il protagonista di π - Il teorema del delirio.
I tuoi personaggi sono tutti alle prese con vite difficili, da cui di tanto in tanto si prendono una tregua grazie ad alcol, stupefacenti, sesso occasionale,… Pensi che il caro e vecchio personaggio “risolto” sia un miraggio della tradizione letteraria, inverosimile?
Io racconto ciò che vedo. Mi viene in mente quando scrissi Personaggi precari e in molti vi scorsero una volontà programmatica di farmi “cantore del precariato”: in realtà stavo semplicemente raccontando la realtà che avevo attorno a me. I fratelli Michelangelo, almeno i quattro che rispondono alla chiamata del padre – Aurelia, che è infatti “risolta”, non si presta alla messinscena – sono tutti alle prese con conflitti interiori e battaglie esteriori, nonché con una società in cui è sempre più difficile emergere, ma non sono certo dei “dropout”: forse solo Cristiana, nel difficile periodo londinese, ha un vero problema con l’alcol; per gli altri, quelle che citi sono tutte “incursioni” occasionali analoghe a quelle che capitano alla maggior parte della gente. Vale la pena però fare due distinguo, visto il loro rilievo narrativo: per Enrico il sesso è stato a lungo un’ossessione, un modo per dare senso alla propria realtà, e proprio al momento degli eventi del romanzo sta cominciando a trovare sempre meno soddisfacente questa soluzione; per Louis, che pure in più punti entra in contatto con sostanze di vario genere, anche illegali, quelle per lui rappresentano solo nuove possibilità di fare soldi, visto che la sua vera ossessione è la “svolta” economica.
Se dovessi anche tu un giorno scoprire di avere un padre come Antonio Michelangelo, quale sarebbe la tua reazione?
Penso che ne sarei disgustato come Enrico all’inizio, e che vorrei prenderlo a calci nel sedere come Louis… Ma sarei tra quelli che accettano l’invito: sarebbe la curiosità a fregarmi.
Invece, chi vorresti per fratello o sorella tra i Michelangelo? Perché?
Io quei ragazzi li vedo un po’ più come miei figli, se non nipoti dato che pure Antonio è figlio mio, ma dovendo scegliere un fratello… Chi non ne vorrebbe uno come Abramo Michelangelo, il fratello geniale proprio di Antonio, morto giovane negli anni ’50 a cui “ogni cosa risultava facilissima”? Se ho deciso di tenere il titolo che ha oggi il libro, nonostante il rischio dell’accostamento con Dostoevskij, è stato proprio quando mi sono reso conto che I fratelli Michelangelo potevano essere sì Aurelia, Louis, Cristiana, Rudra ed Enrico, ma anche Antonio e suo fratello Abramo.
Certamente è prematuro parlare di nuovi progetti creativi (o forse no?). In ogni caso, se non ci puoi fare anticipazioni, ci racconti come ci si sente dopo aver concluso I fratelli Michelangelo?
Sono felice di esserci riuscito, perché la stesura di un libro così lungo e complesso è punteggiata di momenti in cui si ha la sensazione di stare in un tunnel buio di cui non sappiamo neanche se vedremo la fine. Ho qualche idea ma ora sarebbe prematuro lavorarci, anche solo per capirne il potenziale (dopo un libro così, uno è costretto a sparare comunque alto, no?), devo prima distaccarmi da tutto questo. Avrò tempo di farlo senza fretta, dato che ho un paio di uscite “minori”, ma per me molto importanti, in programma: il prossimo autunno tornerà in libreria, stavolta per Laterza, il mio romanzo d’esordio Gli interessi in comune, mentre a inizio 2020 pubblicherò un pamphlet sulla scrittura e il suo insegnamento per minimum fax.
Intervista a cura di Gloria M. Ghioni
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