Racconti dal Dakota
di Hamlin Garland
traduzione di Sara Inga
D editore, 2019
pp. 312
€ 14,90 (cartaceo)
In un giorno afoso, mentre si dirigeva verso il magazzino, Rivers si mise a studiare il cielo e il clima. Nella prateria, come in mare, era importante saper interpretare i venti, l’umidità, il colore dell’aria. Ogni segno era detentore di qualche segreto formidabile, che solo in pochi sapevano leggere. (p. 49)
C’è una frase che si usa spesso per indicare la necessità di lavorare
molto e di buona lena per ottenere, infine, un capolavoro, qualcosa di
apprezzabile e degno di essere riconosciuto: “Roma non è stata costruita in un
giorno”. Roma centro del mondo antico, le cui vestigia ancora oggi restano
indimenticabili, ha richiesto centinaia di anni per diventare caput mundi. Cos’era
all’inizio, infatti, se non un piccolo villaggio composto da capanne, i cui
abitanti provenivano dalle zone circostanti e comprendevano etruschi, latini,
sabini, forse anche troiani?
Così come Roma prima di essere Roma era poco più di un aggregato di
genti, allo stesso modo gli Stati uniti d’America, prima di diventare la
superpotenza emersa nella prima e confermatasi nella seconda metà del
Novecento, sono stati altro. Dopo la guerra d’Indipendenza che nel 1776 ha
sancito la nascita del nuovo stato, nel Diciannovesimo secolo troviamo l’epoca
dei pionieri, di genti che, armate di coraggio e brama di conquista, hanno
lasciato le certezze delle proprie esistenze – spesso segnate da povertà e
prospettive limitate – per spingersi verso ovest, verso territori inesplorati
da reclamare o più verosimilmente da strappare agli abitanti locali. È di questi luoghi e di questo periodo storico che Garland ci
racconta, trasportandoci in terre a volte inospitali e spazzate dal vento e
dalla neve, là dove i pionieri si sono spinti per tornare a nuova vita.
Fra i sei racconti è soprattutto il primo, che da solo occupa circa un
terzo della raccolta, a evocare l’epoca delle scoperte. Un racconto in cui il
lui e il lei del triangolo amoroso si alternano a un loro corale
che coinvolge tutti gli abitanti del nucleo fondativo di una città che ancora
città non è, bensì solo il luogo nel quale «i pionieri cercavano il pezzo di
terra più bello e più verde possibile dove stabilirsi» (p. 31).
Anche gli altri racconti, tuttavia, si concentrano su personaggi
locali che in qualche modo rappresentano un’epoca ormai svanita: nel terzo
racconto Una bella giornata, per
esempio, troviamo la giornata tipica di una donna della fascia povera della
popolazione messa a confronto con quella di una donna benestante; il quarto, Zio Ethan Ripley, si focalizza sulla
truffa subita da un uomo ingenuo. Entrambi, in ogni caso, portano alla luce le abitudini
quotidiane e il desiderio di riscatto di chi vive nei territori dell’ovest in
cui tutto è ancora da decidere e il sogno americano sta per decollare. In questo
senso, Racconti dal Dakota è una
testimonianza preziosa di un’era che fu, narrata con un linguaggio che non si
concede a virtuosismi ma mira piuttosto a raccontare la vita dura dei contadini
e di chiunque si sia ingegnato per strappare il cibo dalla terra.
In coda alla recensione non posso non soffermarmi sulla massiccia
presenza di errori che in qualche modo intaccano
un testo per altri versi più che apprezzabile. Parlo di errori e non di meri
refusi perché è possibile riscontrare più volte, durante la lettura,
sillabazioni errate («qu-el», p. 109; «su-oi», p. 169), errori di ortografia
(«ché» usato per il pronome, pp. 34 e 109), ripetizioni (che errori non sono,
ma trovare nel giro di due righe la stessa parola ripetuta due o tre volte fa
discutere sulla cura del testo).
Racconti del Dakota è dunque
un buon testo che si fa leggere bene e non manca di suscitare emozioni,
indagando al contempo la storia di un continente che ancora non aveva
consapevolezza di sé. Una maggiore attenzione ai dettagli avrebbe evitato la
necessità di soffermarsi su quest’antipatico aspetto del libro.
David Valentini
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