Nessuno ritorna a Baghdad
di
Elena Loewenthal
Bompiani,
2019
pp.
384
€ 19
Che cos’è che si chiama viaggio, in fondo? Un andare per tornare. Un partire per trovare. Tenere fra i denti una carta d’imbarco, aprire la cerniera della borsa a mano, riporre il passaporto in uno scomparto della borsa sperando di ricordarsi quale, imboccare il tunnel malfermo che porta alla bocca dell’aeroplano. (p. 11)
Eppure
a volte non si torna, come il titolo di questo romanzo suggerisce, e non per mancato amore verso la propria città. Anzi, in ogni pagina, in ogni
riga del romanzo di Elena Loewenthal possiamo ritrovare l’amore per una terra d’origine
che mai si sarebbe voluta lasciare, il cui abbandono è dovuto a motivi altri, legati
alla storia, agli eventi drammatici che noi tutti conosciamo e che hanno
portato, più o meno indirettamente, a un massacro di cui non si coglie la fine.
Siamo
durante e dopo la seconda guerra mondiale, in Iraq, a chilometri dalla Polonia
occupata e ancor più distanti da una Parigi messa a ferro e fuoco, o da quelle
coste della Normandia sulle quali nel 1944 è iniziato l’ultimo atto della
Germania nazista. Qui la scrittrice decide di ambientare il suo romanzo per
narrare le vicende degli arabi ebrei, che nel 1948 festeggiano il
ritorno (che ritorno non è) nella Terra promessa, molti dei quali si trovano costretti a fare i
conti con un mondo che non li vede di buon occhio e che anzi li ostracizza
in ogni modo.
La loro storia viene narrata senza pietismo, attraverso gli occhi di una famiglia che ha nel dna la longevità, e che dunque è perfetta per raccontare cento anni di storia, che poi sono cento anni di tradizioni e costumi e di loro cambiamenti.
Curiosa e azzeccata è la scelta di narrare le diverse prospettive in maniera non lineare: mentre torniamo a trovare i tre figli di Norma a distanza di anni, vedendoli prima bambini costretti a crescere senza un padre defunto troppo presto e una madre che ha compiuto una decisione irrimediabile, e successivamente adulti severi e induriti, con figli e nipoti a propria volta, la capostipite è prima una ultracentenaria, poi una donna, infine una bambina. Azzeccata questa scelta, ho scritto, e confermo: tante decisioni che all’inizio appaiono poco chiare, o anche insensate, risultano lampanti quando troviamo la piccola Norma costretta a compiere una delle scelte più complicate della propria vita. L’inversione dei ruoli portata avanti da questa tecnica narrativa (la madre che diventa giovane, i figli che invecchiano) offre inoltre una splendida chiave di lettura dei rapporti umani e parentali, così complessi da essere raramente afferrabili nella loro interezza.
La loro storia viene narrata senza pietismo, attraverso gli occhi di una famiglia che ha nel dna la longevità, e che dunque è perfetta per raccontare cento anni di storia, che poi sono cento anni di tradizioni e costumi e di loro cambiamenti.
Curiosa e azzeccata è la scelta di narrare le diverse prospettive in maniera non lineare: mentre torniamo a trovare i tre figli di Norma a distanza di anni, vedendoli prima bambini costretti a crescere senza un padre defunto troppo presto e una madre che ha compiuto una decisione irrimediabile, e successivamente adulti severi e induriti, con figli e nipoti a propria volta, la capostipite è prima una ultracentenaria, poi una donna, infine una bambina. Azzeccata questa scelta, ho scritto, e confermo: tante decisioni che all’inizio appaiono poco chiare, o anche insensate, risultano lampanti quando troviamo la piccola Norma costretta a compiere una delle scelte più complicate della propria vita. L’inversione dei ruoli portata avanti da questa tecnica narrativa (la madre che diventa giovane, i figli che invecchiano) offre inoltre una splendida chiave di lettura dei rapporti umani e parentali, così complessi da essere raramente afferrabili nella loro interezza.
Sullo
sfondo, si è detto, la storia. I romanzi generazionali e le saghe familiari
sono il punto di partenza ideale per raccontare le evoluzioni storiche, in
quanto i personaggi vivono all’interno di un tessuto sociale che, a propria
volta, li condiziona e ne forma il carattere. Siamo qui negli anni della
diaspora, ben rappresentata nel microcosmo della famiglia Zilka dalle diverse
strade prese dai personaggi; ma siamo anche negli anni della nascita di uno
stato ambiguo creato sulla carta dalle Nazioni unite e subito accerchiato da
nemici, e anche questo aspetto trova la propria controparte nelle faide interne
che lacerano la famiglia, gli anni di silenzio e la lontananza di Norma; siamo
infine negli anni della modernità e di una distensione mai pienamente attuata,
sia nel macro- sia nel microcosmo.
Nessuno ritorna a Baghdad è un bel romanzo, forse un po’
prolisso nella parte centrale, come se per arrivare alle ultime pagine fosse stato necessario coprire decenni di vita di
persone che, casi eccezionali a parte, sono esseri umani normali, a tratti banali. Tuttavia il linguaggio altamente evocativo, quasi onirico in molti passaggi, soprattutto quelli
collegati alla memoria, agli addii, a un passato che non può tornare ma risulta
conficcato nelle menti dei personaggi, è un toccasana di eleganza e
ammaliamento compensa ampiamente anche i passaggi un po' più stanchi. Quello di Loewenthal è un romanzo da leggere con attenzione, se non altro per non perdersi
dietro ai tanti personaggi che compaiono sulla scena, ma soprattutto per potersi immergere nelle atmosfere di un medio oriente sparito il cui fascino è tuttavia vivido e tangibile.
David
Valentini
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