di Elvira Navarro
traduzione di Sara Papini
LiberAria, 2019
pp. 174
€ 18 (cartaceo)
Ero da poco tornata a Madrid, Internet non esisteva e dovevo ricorrere ai giornali. Il mio unico desiderio era farmi leccare la fica con le mestruazioni in un giorno di luna piena. Così, senza una ragione particolare. Credo che la follia si nascondesse proprio lì, in quella pretesa al limite e allo stesso tempo minima, come inghiottire un centopiedi con l’insalata. (p. 13)
Se guardiamo alla trama di questo romanzo non c’è molto da dire: Elisa ha una condizione lavorativa precaria e abita insieme a Susana,
donna dal carattere scostante e dal passato indefinito, che sin dall’inizio
attira l’attenzione della coinquilina, la quale sente il bisogno di scoprirne di
più; le due vivono in una Madrid nevrotica e confusa, in un’epoca, la nostra, che sembra
impedire la possibilità di creare legami stabili.
È la narrazione di Elvira Navarro a garantire profondità a una storia
che di per sé non offre molto: se da un lato infatti non c’è
granché da dire sul lavoro di Elisa o sulle velleità artistiche di Susana, dall’altro
l’accesso diretto alla mente della protagonista, che nulla vuole tacere dei
propri pensieri, sembra proiettare il lettore all’interno di una seduta
psicologica, terzo incomodo fra le pareti dello studio. Elisa infatti è un
fiume in piena che nessuna diga potrebbe contenere e del cui letto riusciamo a conoscere ogni curva, ogni strettoia, ogni sassolino trascinato dalla corrente.
La voce di Navarro è, in questo senso, l’antitesi del minimalismo e del
motto “less is more”, senza tuttavia la possibilità di essere inserita nel calderone
massimalista, perché di questo stile non condivide le
caratteristiche riportate, ad esempio, nell’articolo
di Doppiozero: «lunghezza, modo enciclopedico, coralità dissonante,
esuberanza diegetica, compiutezza, onniscienza narratoriale, immaginazione
paranoica, intersemioticità, impegno etico e realismo ibrido». La lavoratrice è invece un
romanzo breve, focalizzato sulla protagonista, con un’unica voce, eclettico più
che esuberante, che non vuole offrire una visione etica del mondo e che lascia molti spazi vuoti a livello narrativo.
Con “spazi vuoti”, si badi bene, non intendo parlare di di
incompiutezza o della presenza di buchi nella trama quanto piuttosto, se
consideriamo quanto detto a proposito del metodo psicologico adottato, far
presente che della storia di Elisa il lettore viene a sapere, usando una locuzione presa in prestito dalla geometria, tutto – anche troppo
– e solo ciò che l’autrice vuole raccontarci: vale a dire che riguardo ciò che si
è scelto di narrare noi percepiamo quel senso di travolgimento e a tratti
stordimento, in quanto partecipi della confusione mentale/esistenziale della
protagonista, la cui vita scorre fra giornate passate al pc per strappare uno
stipendio e passeggiate in una Madrid caotica, sibillina e frustrante; dal resto siamo totalmente esclusi. La sovrabbondanza è
focalizzata e tutto il resto non ci è concesso, per questo non lo si può definire un
romanzo massimalista, anche se i tratti sembrano esserci.
Altro aspetto rilevante del testo, in parte connesso con quanto detto
sulla sovrabbondanza focalizzata, è la morbosità della conoscenza. Come il lettore
vorrebbe saperne di più su quanto gli viene taciuto, così la il rapporto fra la
protagonista Elisa e la sua coinquilina Susana ha un che di paranoico: da una
parte entrambe cercano di scoprire l’una di più sull’altra e al contempo di
raccontarsi per appagare quel bisogno di socialità che è intrinseco a ognuno
di noi; dall’altra tutte e due vogliono proteggere la propria intimità e la
propria privacy fra le mura di uno spazio vitale condiviso. Tutto ciò scatena
un circolo vizioso: più una tace sulla propria vita, o meglio seleziona cosa
dire, più l’altra vuole sapere; più, d’altro canto, una sente minacciata quella
sfera personale entro la quale nessuno dovrebbe entrare, più si generano ansie
e turbamenti che, mescolati con quanto di spiacevole avviene fuori dalle mura
domestiche (torniamo a quella Madrid frustrante e iperconnessa), moltiplica il
senso di disagio anche all’interno.
Elvira Navarro, con la sua Lavoratrice,
ci offre un ritratto spietato dei nostri tempi, dipingendo luoghi e persone per
i quali non sembra esserci possibilità di salvezza. La sua tuttavia non è una
scrittura cinica: anche se di questa salvezza non c’è traccia fra le pagine del
libro, ne possiamo trovare un richiamo costante fra le righe, come fosse
qualcosa di là da venire e che dovremmo riconoscere senza ombra di dubbio.
David Valentini
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