di Enrico Terrinoni
Il Saggiatore, 2019 (prima ed.)
pp. 220
€ 24,00 (cartaceo)
Non singolare che il software di videoscrittura sopra cui il
documento si va elaborando - che al lettore potrà sembrare interessante o
prolisso a seconda della sua disposizione verso l’autore del volume o della
nota critica – segnali con un piccolo segmento a zigzag di colore rosso che il
termine utilizzato per titolo non si può costringerlo alla categoria delle
parole significanti. “Infinitiplicare” – ecco che di nuovo sono ammonito
dell’errore – non rimanda a nessuna immagine mentale, né reale (il software di
videoscrittura, il volume da recensire, etc.) né fantasiosa (un bestiario di
animali mitologici). Neppure si potrebbe farne una procedura: assumendo che il
termine sia composto da “infinito”, già intelligibile nel solo territorio del
paradosso, e “moltiplicare”, si potrebbe tradurlo con l’espressione
“moltiplicare all’infinito”. Ma soltanto quanto è finito contiene in potenza la
riproducibilità: ecco che l’immagine mentale della moltiplicazione aritmetica è
interdetta dalla parola. Non si tratta di trovare nuovi generi per nuove
parole, si tratta invece di sovvertire il genere.
Qualsiasi sistema
che possa vantare un compito può essere condotto a un tessuto indistinto di
sensi, tali che questi si mescolino gli uni con gli altri producendo un’intelaiatura
a protezione del sistema da una rovinosa caduta verso l’irrazionalità. Il senso
non può che vibrare da un luogo a un altro, propagandandosi attraverso le
corde: di fatto, risuonando attraverso una certa forza esercitata su di esse. È
la scena di un’energia che attraversa un reticolo di fili invisibili che meglio
potrebbe presentare il volume Oltre abita il silenzio di Enrico Terrinoni (Il
Saggiatore), traduttore dell’Ulisse
di James Joyce (Newton Compton) e curatore dell’edizione italiana del Finnegans Wake (Mondadori). Cos’è la
circolazione dell’energia se non un certo moto che permette una
certa traduzione? Ecco che la
traduzione conduce con sé (doppia traduzione, dunque), attraverso sé, l’ideale
dell’ubriaco che ciondola per le strade. Egli si sposta e passeggia da un luogo
a un altro, ma sempre tenendosi poco saldo sulle gambe, sempre incombendo
sull’asfalto. La sua identità è nella perdita continua dell’equilibrio.
«Ero alle prese con la traduzione italiana di Ulysses», scrive Terrinoni (p. 32), «e momenti di sconforto […] mi capitavano non di rado. Uno di questi […] fu dovuto a un presunto gioco di parole, che però ben presto si rivelò un gioco di pensiero […] gravitante intorno al termine ham», i cui traduttori risolvono spesso con la semplice occorrenza di “prosciutto”, il quale tuttavia «rimandava al figlio di Noè, personaggio biblico che da noi si chiama Cam, ma che in inglese è proprio Ham». È a causa di questa parola dal significante ubiquo, ora figlio di Noè ora prodotto da salumeria, che Terrinoni azzarda una decisione: «nel mio Ulisse, infatti, la parola ham è diventata insacco; ovvero Isacco» (p. 35).
L’horror vacui attraversato dal traduttore
durante la tempesta linguistica di Joyce, che si vede già distrutta
l’imbarcazione con cui prova a traghettare le parole da un senso all’altro, e
infine il tradimento della lettera che gli permette una pur breve incolumità
(poiché nuove tempeste incombono), dicono dell’amplificazione potenziale della
parola. Oltre gli ibridi
linguistici di Joyce, dove l’immagine mentale non può che modellare animali
mitologici con almeno una testa per ogni intervallo temporale, la forma di una
lingua è quella che mentre esibisce i significati più semplici, pure nasconde –
dove? All’interno di se stessa – il proprio conato all’interdizione
dell’immagine mentale. Ed è questo il compito del traduttore: eviscerare la
molteplicità e sostituirla con una molteplicità analoga, meglio: sostituirla
con l’analogo della lingua d’approdo che covi altri analoghi di molteplicità.
Anche l’analogia si moltiplica, si infinitiplica.
Dove ogni testo (proprio in quanto textus, tessuto) non potrebbe essere
tale senza un aggrovigliarsi di razionalità intestine dentro cui si consuma la
voce (quella del Narratore, di due dialoganti, di una nota a piè pagina), il
traduttore deve operare come un chirurgo per asportare il grumo del molteplice
e innestarlo su un altro corpo. Tradurre è un esperimento orrorifico. Si
insidia prima il sospetto nella razionalità del testo, come domandarsi se un
uomo perfettamente sano non conduca con sé un pur piccolo seme di
irrazionalità, dunque si prova a interrogarlo secondo il proprio pregiudizio.
Il traduttore compie sempre un’opera di violenza, ma una violenza insidiosa,
più simile a “Il processo” di Kafka che al romanzo hard boiled.
È stata
l’invenzione di Joyce, aver provato una traduzione prima che una stesura
romanzesca: nel passaggio (ancora un moto) che dall’immagine mentale produce un
paragrafo, il cui compito sarebbe poco meno che descrittivo, Joyce lascia cadere
una ghigliottina. Ma la ghigliottina presenta uno
specchio su entrambi e lati: la parola, dove adesso non assomiglia più al
proprio significante, prova tuttavia a coincidervi, riuscendovi soltanto a
patto di una torsione. Infinitiplicando parole
e torsioni, affiorerà dalla pagina la macchina linguistica nel
tentativo più-che-realista di descrivere la complessità della vita. Soltanto
gli scrittori modesti possono saccheggiare da Joyce il flusso di coscienza: non
serve poi molta fatica ad abbandonare l’interpunzione. Ma l’Ulisse e il Finnegans si disinteressano dello stile (questo stendardo del
conformismo) per una traduzione dell’infinito. E se l’infinito non ha
interpunzione, figurarsi il suo rovescio.
«Il testo è una
lettera non-morta in cui si annidano, dormienti, chissà quali insondabili
intenzioni» (p. 135), scrive Terrinoni. E per questo bisogna sempre tradurre
come non si potesse mai giungere a nessuna traduzione, come si fosse nati orfani di lingua madre.
Antonio Iannone
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