Le visioni appaiono senza avvisare, amano confondere mostrandosi caduche, sostenute dai dubbi che provocano. Vengono create per imbrogliare e di solito passeggiano dopo il tramonto…
Quanto contano i
ricordi nella vita di ognuno?
I ricordi spesso si
traducono in luci, ombre, eventi, dolori, irti percorsi, inspiegabili vuoti, piccole voragini, indizi confusi, incertezze o rimasugli
ubicati in angoli nascosti della mente. Soffermarsi a ripescare quei tasselli
memoriali nel tentativo di ricavare
forme più stabili, entrare in quello spazio della memoria senza tempo, ogni
tanto e in punta di piedi, è ciò che
permette e invita a fare la delicata scrittura di Dario Pontuale. Senza
rimpianti inutili, senza rimanere intrappolati nella constatazione delle legge
naturale del tempo che passa, senza spostare lo sguardo sempre e solo indietro,
è bello ed essenziale coltivare il ricordo con naturalezza senza sprecarlo, con
e per il piacere di farlo.
Dario Pontuale ci apre
le porte di un memoriale ampio che riguarda un ambiente preciso: una periferia.
Qui si stagliano e si intrecciano diversi destini. Il racconto si dipana
lentamente, come possono essere gli stessi ricordi, lasciando spesso al lettore
spazi indefiniti di movimento narrativo.
In una zona periferica romana denominata Barrio, una fabbrica di liquori in disuso
viene chiamata Fortezza. Qui qualcuno vorrebbe far costruire un grande centro
commerciale.
Dallo stabile n.49 parte il racconto di Michele, voce narrante
della storia.
Il protagonista rimette
in circuito una fitta rete di ricordi, che partono dal momento in cui da
adolescente viene beccato a scrivere su un muro. Si ripercorrono una serie di
avvenimenti che riguardano i cambiamenti sociali delle persone che vivono in
quel quartiere; relazioni che evolvono tra i personaggi e l’ambiente stesso,
destinato a subire forti modifiche al suo assetto a causa di forze esterne. Si
snoda anche la vita di Alfiero, l’anziano “accusatore” che si occupa della
biblioteca del quartiere, a cui Michele rimarrà legato da un rapporto quasi
filiale.
La senilità di Alfiero proseguì parallelamente alla mia crescita, la sua immutabile quotidianità si adattava alle mie poliedriche abitudini universitarie. La biblioteca di quartiere continuò la sua opera, intanto in cortile i piccioni minaccivano il bucato, le strade si specchiavano nelle vetrine e la convivenza con le creature dalle potenti mandibole cresceva giornalmente. (p. 40).
Si alternano nella
storia esperienze
emozionali che includono diverse dimensioni: la valenza e
l’intensità. Le persone solitamente si fidano dei loro ricordi; sono convinti
che il modo in cui si rinvia a un evento tragico o positivo coincida con il
modo con cui il fatto si è verificato. Spesso l’individuo è disposto ad
ammettere che la memoria è fallibile e che spesso il
ricordo potrebbe non essere il riflesso della realtà. È ciò che anche Michele
tenterà di esorcizzare per tutto il romanzo.
L’autore non si limita a descrivere i personaggi,
ma li rende “suoi”; la sua scrittura chiara ed elegante ci permette di entrare
nei dettagli più intimi, di cogliere da un punto di vista emozionale gli eventi
mutevoli che caratterizzeranno di molto la vita di Alfiero e i microimpulsi
esistenziali che appartengono, invece, all’inquietudine di Michele.
La trama è ben strutturata e coniuga parole, immagini e dettagli episodici. La relazione
tra intensità, valenza e memoria autobiografica, anche degli eventi più tragici, offre
in questa storia un’idea di veritiera coesione.
C’era una ruga impressa nel volto di Alfiero, una piega indelebile talmente profonda da scendergli nelle viscere, provocata non dal rimpianto per il passato, ma dal sentimento di un irrecuperabile ritorno. Un impulso amplificato dalla capacità di intuire la fine delle cose prima che queste si consumassero definitivamente.[…] Quella ruga non rappresentava il segno nostalgico del tempo, né le vessazioni inferte dalla transitorietà del presente e, meno ancora, la prerogativa di chi si arrende a ciò che non c’è. Alfiero non simboleggiava affatto un esempio di arrendevolezza. (p. 64)
La scrittura di Dario Pontuale è estremamente
curata, sia nella scelta lessicale, (ricerca verbale e aggettivazione) sia nello stile complessivo utilizzato per tutta
la narrazione. Parole mai scontate, che danno un’idea immediata e autentica di
quanto descritto.
“La cena irruppe dal forno, occupò i piatti caldi,… sgomberando la mente, riuscii a nascondermi eclissandomi dietro un’auto parcheggiata…un cenno di intesa e le due persone sgusciarono fuori dal vicolo…non si accorsero di nulla pure quando mi sfilarono accanto…Non li riconobbi, ma mi rasserenò vederli girare l’angolo ad ampie falcate….Continuai a scrutarlo attraverso il parabrezza e i finestrini….Calò nel buco in pochi secondi, favorito dal buio, muto più delle ombre. In una notte neanche troppo fredda, accovacciato dietro un’auto, raggelai intuendo la minaccia”. (p. 93)
E ancora:
Nonostante l’impiego da prezzolato tesista, conservai la sana abitudine di muovermi nel Barrio di notte, vagando quando l’orologio frena le lancette e la luna imbianca le cose. Dopo tante ore al computer concedo tregua agli occhi ed esco, camminando senza meta, a caccia di obsolete novità. Scruto il movimento di una massa abbrustolita dai neon, magma nascosto nel sottosuolo che risale col favore delle tenebre, coriaceo al logorio del giorno. In quelle ore il Barrio si lascia guardare senza pudori, né la vergogna delle cicatricinè l’ingiuria delle mutazioni. Il quartiere muta ed è diverso da quand’ero bambino, è altro rispetto a quand’ero giovane o quando lo erano Alfiero, Ivano, Eugenio, Virna. (p.75)
Certi
ricordi non tornano è un libro dalla trama non scontata, dal finale aperto
e connotato da vicissitudini inconsuete. Una storia che induce a diverse
riflessioni sulle conseguenze imprevedibili delle azioni umane.
Non sempre
gli eventi della vita trovano una spiegazione plausibile.
Certi ricordi, nonostante tutto, non tornano
vividi nella memoria e valgono quindi per come vengono raccontati, proprio come
affermava G. García Márquez:
La vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
Mariangela
Lando
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