di Isabella Corrado
Ensemble edizioni, 2019
pp. 162
€ 15 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
Siamo una generazione vorace - dico siamo perché sia io che l'autrice e i suoi personaggi condividiamo l'ansia da trentenni in questa dimensione di precariato e precarietà che ci pesa tanto sulle ambizioni quanto sul portafoglio. Così i protagonisti di Fame, Manuela e Derek, vivono in una dimensione di perenne incertezza: per lei c'è la frustrazione lavorativa, quel barcamenarsi tra stage mal retribuiti e veri e propri sfruttamenti, nonostante l'ottima formazione ricevuta; per lui, ricco di famiglia, c'è semmai l'inerzia di voler diventare artista ma non crederci fino in fondo, e affogare il suo scontento in alcol, donne e shopping compulsivo. E fame. Sì, perché entrambi i protagonisti trovano nel cibo un modo per riempire almeno temporaneamente i propri vuoti: poco conta che i loro siano corpi piacevoli alla vista, addirittura belli; dentro soffrono di una fame atavica, che si ripresenta spesso all'interno del romanzo.
L'incontro tra loro non è che una pura e mera casualità (come, d'altro canto, niente avviene per meriti propri, in questo romanzo, ma sempre perché qualcun altro tira i fili o perché esiste l'arbitrarietà): un'attrazione come tante - sia Manuela sia Derek sanno bene cosa significhino i rapporti occasionali, senza alcuna volontà di costruire. Eppure, per Derek scatta qualcosa: l'illusione della salvezza, l'illusione che Manuela possa colmare la sua fame una volta per tutte e aiutarlo a uscire dalla terribile impasse che l'ha portato a frequentare uno studio psicoanalitico.
Ecco che i due ragazzi si trovano a rincorrersi tra Roma e Londra più o meno consapevolmente, perché Manuela insegue il sogno di trovare una professione che la valorizzi e, successivamente, che le dia perlomeno di che sostentarsi. Le radici non esistono; la solitudine è tanta e i genitori molto spesso errano, o non ci sono per niente: Manuela è divisa tra il padre (a Roma) e la madre (a Londra), alle prese con la sua nuova vita che la figlia non sembra accettare; Derek ha solo il padre, che però non fa che rimarcagli la completa delusione per l'inettitudine del figlio.
Isabella Corrado insieme a Gioacchino De Chirico e Filippo La Porta al Salone di Torino (9 maggio) |
Il romanzo, come hanno sottolineato i critici Gioacchino De Chirico e Filippo La Porta nella presentazione al Salone del Libro di Torino, è difficile da definire: a tratti pare il romanzo di formazione di una giovane donna, concentrato più sul percorso che sulla meta da raggiungere. Altrove lo potremmo definire con La Porta "la vita al tempo dello stage", ovvero un romanzo che si muove tra rappresentazione e denuncia. Per la sua impostazione e per lo scavo psicologico ora di Derek ora di Manuela, potremmo pensare a un romanzo psicologico, che in effetti comprende al suo interno sedute psicoanalitiche (ma di più non posso dire). E certamente si tratta anche di un romanzo d'amore.
Per i due critici l'elemento ironico e soprattutto l'autoironia salvano il romanzo dal rischio di un tono lamentoso, che in effetti manca del tutto. Tuttavia, da lettrice coetanea dei protagonisti e appartenente a questa generazione di "sradicati", posso dire di aver sentito e apprezzato molto l'elemento di denuncia: Manuela siamo tutti noi, che abbiamo faticato e stiamo tuttora lottando per trovare un minimo di sicurezza lavorativa e non solo.
La voce dell'autrice non si percepisce mai nel testo, che si presenta invece come una narrazione in prima persona, ora di Derek ora di Manuela: ma è proprio questo lasciar parlare i personaggi che trovo essere la nota molto positiva del testo, questo narrare senza spiegare per forza (vizio purtroppo di molta della letteratura italiana). E del tutto originalissima è questa voracità plurima e senza fondo, che investe tutto: dalla ricerca del lavoro, alla dimensione affettiva, passando attraverso la vera e propria fame di autoaffermazione e di identità.
Per i due critici l'elemento ironico e soprattutto l'autoironia salvano il romanzo dal rischio di un tono lamentoso, che in effetti manca del tutto. Tuttavia, da lettrice coetanea dei protagonisti e appartenente a questa generazione di "sradicati", posso dire di aver sentito e apprezzato molto l'elemento di denuncia: Manuela siamo tutti noi, che abbiamo faticato e stiamo tuttora lottando per trovare un minimo di sicurezza lavorativa e non solo.
La voce dell'autrice non si percepisce mai nel testo, che si presenta invece come una narrazione in prima persona, ora di Derek ora di Manuela: ma è proprio questo lasciar parlare i personaggi che trovo essere la nota molto positiva del testo, questo narrare senza spiegare per forza (vizio purtroppo di molta della letteratura italiana). E del tutto originalissima è questa voracità plurima e senza fondo, che investe tutto: dalla ricerca del lavoro, alla dimensione affettiva, passando attraverso la vera e propria fame di autoaffermazione e di identità.
GMGhioni
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