di Fiorenzo Caterini
Carlo Delfino editore, 2017
pp. 288
€ 19,00
Immaginate di vivere da sempre in un luogo: lo attraversate quotidianamente e i suoi monumenti non vi sono estranei, ma ne sapete poco o nulla. Durante la scuola non vi hanno insegnato quasi niente della sua storia, delle sue origini e delle sue evoluzioni. Conoscete dei nomi che però risuonano in un vuoto di concetti. In macchina passate di fronte a castelli e cattedrali immerse nei campi, ma non sapete chi li occupava e le ragioni della loro presenza in quei luoghi. Eppure negli anni vi hanno spiegato gli etruschi, i Comuni e Federico II, ma del posto in cui vivete ogni giorno nessuna traccia. Diventati grandi, per vostra curiosità, scoprite alcuni aspetti entusiasmanti di quello che vi circonda, e allora vi chiedete: perché queste vicende non si conoscono? Perché non si insegnano a scuola?
È a queste domande che Fiorenzo Caterini tenta di dare una risposta nel suo La mano destra della storia. Il libro tratta della Sardegna, un’isola che appare raramente nella maggior parte dei manuali di storia: notarelle perlopiù, nessun vero approfondimento. L’autore parte da questa constatazione per affrontare le ragioni profonde e i meccanismi di questo processo di estromissione della storia sarda da quella più ampia italiana. L’approccio usato è quello degli studi culturali e in particolar modo quelli post-coloniali. Una scelta che potrebbe stupire, ma che si rivela assai efficace, soprattutto per comprendere le conseguenze sociali di una simile assenza. La Sardegna infatti è stata per molto tempo un oggetto a cui si negava soggettività, che veniva raccontata alla comunità internazionale da persone esterne, mentre le proprie voci non avevano diritto di rappresentanza: un oggetto inascoltato di amore o disprezzo. Solo acquistando un’altra lingua l’isola ha potuto raccontarsi aldilà del mare, ma dovendo affrontare il peso di molti stereotipi, anche letterari. Un carico che influenza la percezione sia di chi ci capita sia di chi ci vive, tanto che alcuni sardi faticano a scindere ciò che sono realmente dalla proiezione che hanno imposto quelli che li descrivevano: se una cosa piace e rassicura l’idea che l’altro ha (come i costumi tradizionali) si deve mostrare anche fuori contesto, se una cosa dispiace (come la lingua) si deve cancellare o lenire. Difficile uscire dalle aspettative che lo sguardo altro, di fatto egemone, esige.
La trattazione di Caterini ha però il suo nucleo principale nel racconto dei momenti storici più importanti vissuti dall’isola e del loro processo storiografico. A differenza del medioevo giudicale e dei moti antifeudali, la preistoria nuragica ha il maggiore risalto: un silenzio sui quasi diecimila nuraghi – alcuni datati anche un millennio prima della fondazione di Roma – che per l’autore è una vera e propria pietra di scandalo. All’epoca era l’unica civiltà del Mediterraneo occidentale che potesse competere con l’Egitto e il Medio Oriente, ma tuttavia ora non è né conosciuta né tutelata, e ha pochissime risorse per portare avanti scavi e rilevamenti e ancor meno per le ristrutturazioni. I nuraghi, anche per questo, sono luoghi misteriosi più che storici, anche se molto presenti nel panorama isolano. Il racconto di queste manchevolezze e miopie viene sviluppato con una penna piacevole e chiara, capace di argomentare senza estremismi e trovando esempi e parallelismi davvero esaustivi.
Ma qual è l’ipotesi dell’autore su questa assenza? Caterini propende per un pregiudizio dei dominatori sabaudi misto ad un sentimento di estraneità. I Savoia detestavano l’insalubrità dell’isola e ne odiavano, ricambiati, popolazione e cultura. Come potevano far derivare il mito di una nazione da costruire da una terra simile? Inoltre la narrazione storica della Sardegna non aveva come centro l’asse Roma-Firenze, e aveva elementi che non si armonizzavano con l’ideologia nazionale italiana ottocentesca e che quindi andavano espunti. Un paradosso, sottolinea l’autore, perché proprio dal Regno di Sardegna è nata l’Italia unita. L’autore però lascia aperti spiragli anche per altre ipotesi, come a stimolare l’opinione del lettore attraverso le argomentazioni e i dati sulla contemporaneità. Elemento che fa de La mano destra della storia, un ottimo saggio per maturare uno sguardo critico sulle narrazioni nazionali che omologano, esaltano e cancellano.
Gabriele Tanda
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