di Erminio Ferrari e Alberto Paleari
Monterosa Edizioni, 2019
pp. 256
€ 27,50 (cartaceo)
Dall'alto della cavea scorrono verso l'arena i fiumi e noi, che siamo giunti in cima ai Tremila seguendone all'inizio il corso, poi abbandonandolo per le più sicure creste e gli spigoli, guardando dall'altra parte, oltre i muraglioni esterni sostenuti da archi, vediamo il mondo.
Lo dico subito: soffro di vertigini, quindi forse non sono
la persona più indicata per disquisire di arrampicate, strapiombi, canaloni e
imbracature; il mio rapporto con le alpi della zona in cui vivo si limita a
infinite scarpinate lungo i tanti sentieri più o meno impervi, più o meno
battuti che si ramificano lungo le valli di quest'area ma che mi permettono di rimanere sempre in posizione perpendicolare
rispetto al terreno. Per questo motivo, un titolo come Ossola quota 3000 non
dovrebbe comparire nella mia biblioteca, né dovrei essere io a scrivere questa
recensione.
Forse.
Ma forse no. Perché a parte il fatto che parla della Val
d’Ossola, l’angolo di paradiso dove vivo da quando sono nato (non esagero, mi
spiace per voi della “bassa”), questo è un libro che, a dispetto del titolo,
non parla solo delle arrampicate, strapiombi, canaloni e imbracature di cui sopra.
Non è la prima volta che scrivo, qui su Critica Letteraria,
dei libri “eterogenei”di Alberto Paleari; non romanzi, non saggi, non diari di
viaggio, non semplici manuali d’uso. Anzi, forse tutte queste cose insieme. Sì,
perché si può parlare di montagna, di vie ferrate, di imprese alpinistiche in
modo non meramente tecnico ma arricchendo il testo con innumerevoli contributi
dalle provenienze più inaspettate.
Non conoscevo invece Erminio Ferrari, che con Paleari firma
questo libro ricchissimo e piacevole: i due, compagni di escursioni ed entrambi
scrittori navigati, si alternano nei tanti racconti che partono da un’idea
funzionale e diventano letteratura. Capitoli brevi che illustrano, una alla
volta, le cime che fanno da corona alla Val d’Ossola e segnano il confine con
la Svizzera, le vie di accesso e di rientro, le difficoltà di esecuzione, l'equipaggiamento necessario, contornando la dimensione
tecnica con i racconti di ascensioni passate, di letture fatte, di musica, di
arte, di storia dell’alpinismo e di alpinisti storici. Walter Bonatti, Umberto
Eco, Tom Waits, Saul Bellow, Edward Elgar sono solo alcuni dei nomi “di
passaggio” che incontriamo lungo le pagine.
La nuvolaglia, che andava e veniva oltre la Punta delle Caldaie e il Pizzo del Moro, scopriva e ricopriva Veglia, Cistella, Diei, il Rosa, i vivi e i morti e il resto del mondo. Da qualche parte, qualcuno suonava le ultime battute della quarta di Bruckner, quella tensione crescente degli archi che precede il clamore finale, e io pensavo già alla nostalgia che prima o poi avrei avuto di quell'istante.
Proprio questa ricchezza di citazioni e di rimandi, sempre
pertinenti e mai “buttati là” per millantare conoscenza, dimostra come si possa
scrivere (anche) di montagna senza essere etichettati come scrittori “di
montagna”. Che sono un’altra cosa, sono quei tipi arruffati, con la barba lunga
e il mozzicone di sigaro all’angolo della bocca, che vanno in televisione a
sbrodolare sentenze su qualsivoglia argomento senza aver competenza alcuna, che parlano
volutamente sgrammaticato e che scrivono in modo orribile maltrattando l’italiano per dare l’impressione di essere veri "montanari imbruttiti", sguazzando nella
banalità della retorica (la montagna culla di valori, di superiorità morale, di
solidarietà, di simbiosi con la natura e via farneticando) che tanto affascina quelli che in montagna (cioè
fin dove arriva l’auto) vengono una settimana all’anno ma si sentono “pavte integvante del
tevvitovio”.
Ecco, Paleari e Ferrari non sono due scrittori “di
montagna”; le loro pagine sono ben altro, ricche di ironia e di delicatezza, profondamente poetiche, mai
banali, sempre piacevoli e appaganti perfino quando espongono dati tecnici.
Ossola quota 3000 è un libro interessante e curioso, che può
essere apprezzato da chiunque voglia immergersi in tante storie antiche e recenti,
raccontate con grande capacità da entrambi gli autori, che tra l’altro usano
tono e registri piuttosto simili, tanto da far immaginare un libro scritto interamente a quattro mani invece che a parti separate.
Una ragione in più per avvicinarsi a questo libro sono le
bellissime foto, tutte a colori, delle vette ossolane, scattate dagli stessi autori
durante le loro incursioni, che restituiscono in modo impressionante la
maestosità dei luoghi e il grado di difficoltà delle imprese. In effetti mi
domando come ho fatto ad ammirarle così a lungo nonostante le mie vertigini.
Forse perché le ho guardate da seduto, chissà.
Stefano Crivelli
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