di Francesco Targhetta
Mondadori, 26 marzo 2019
Con un intervento di Andrea Cortellessa
pp. 264
€ 17 (cartaceo)
Perché ci parliamo delle cose vere
ogni volta per tre minuti appena? (p. 61)
C'è una generazione difficile da raccontare, che viene bene nelle fotografie solo perché è ferma, pur con il suo continuo vagare alla ricerca di una sicurezza lavorativa, identitaria, economica, sentimentale. Raccontare il precariato è difficile e sette anni fa Francesco Targhetta ha provato a farlo in un modo davvero poco battuto: il romanzo in versi, in cui riecheggia la poesia lezione di Elio Pagliarani (si pensi, ad esempio, alla Ballata di Rudi).
Da poche settimane è tornato in libreria Perciò veniamo bene nelle fotografie (edito per la prima volta da ISBN, ora per Mondadori), con il testo riaggiornato e un'illuminante postfazione di Andrea Cortellessa.
Il romanzo in versi muove dal momento in cui il protagonista, dottorando in storia, si trasferisce dalla provincia a Padova insieme all'amico Teo, che lavora nei call-center: in un fatiscente appartamento di periferia, i ragazzi si ritrovano a dividere gli spazi e a condividere le loro sfide quotidiane con altri quattro coinquilini, tutti nella stessa identica situazione di precariato. Se i lavori dequalificanti sono all'ordine del giorno, anche i sentimenti partecipano alla stessa lotta del precariato: impossibile mettere radici, tutto è ormai filtrato dal sistema, persino «"La nostalgia è un sentimento / che ci appartiene sponsorizzato"» (p. 91) C'è chi allora si sottrae alla stagnazione economica (e non solo) aggrappandosi alle proprie passioni, ma c'è anche chi spera che l'alcol metta a tacere per qualche ora l'estrema insoddisfazione e la perenne frustrazione.
Nel caso del protagonista, in particolare, è in atto una sfida persa in partenza contro il professore - classico barone universitario - che temporeggia davanti alla sua più che comprensibile attesa di un assegno di ricerca. Favorita, la ragazza carina di turno: più spavalda, infinitamente più sciolta e "spendibile" nei convegni e - chissà se il protagonista è oggettivo - meno preparata. Il periodo del dottorato viene guardato impietosamente sia dal protagonista sia dagli amici, «sicché pure Los pensa al dottorato / come momentanea soluzione,/ prolungando gli anni di formazione/ fino a saperne, poi, talmente tanto/ da non poterci più fare niente: / inizieranno a darci un senso, forse,/ quando saremo in fase senescente,/ incattiviti dal tempo speso in sala/ d'attesa» (p. 121). La decisione, ad esempio, nel caso di Los è quella di partire per il Belgio con la sua laurea in matematica e tante speranze per il futuro: ma cosa lo attenderà?
Per chi resta, come il protagonista, la via più o meno obbligata dopo il dottorato è quella dell'insegnamento, e nelle sue prime esperienze si leggono i dubbi, i tentennamenti, lo scollamento dal presente e dal ruolo che molti avranno provato: «vorresti scappare in Islanda, / in Perù, a Calcutta, / ovunque non ti domandino questo:/ di insegnare la storia mentre sei tu / che impari di essere sostituibile / come tutto il resto» (p. 108). D'altro canto è anche inutile battersi con chissà quali aspettative, perché «a scegliere sarà / piuttosto il consiglio dei ministri,/ un crollo, un taglio, questo mondo/ che ci scippa che sfugge/ come un ladro» (p. 152). E l'amarezza è ormai palese, gli occhi dei protagonisti si muovono tra rassegnazione, rabbia, senso di pietrificante sconfitta, tristezza più o meno intervallata da qualche speranza che - clandestina - si frappone tra una delusione e la successiva.
Se siete soliti sottolineare le frasi che preferite nei romanzi, ecco, preparatevi, perché in questo caso spesso vi verrà la tentazione di annuire e segnare con la matita passaggi in cui ritrovate la vostra stessa esperienza, soprattutto se avete tra trenta e quarant'anni e ancora lottate giorno dopo giorno per trovare una vostra posizione. Poi, certo, sarà una mano un po' tremante quella che sottolinea, perché tanta cocente lucidità in versi non lascia indifferenti. Un esperimento interessante, che conosce - come propone Cortellessa nel suo commento - la lezione di una quotidianità dimessa e in minore alla Govoni, alla Gozzano, alla Moretti. Ma Targhetta trova un suo agio nella dimensione del romanzo in versi, la abita con sciolta consapevolezza, e nell'accapo anche noi lettori abbiamo il tempo per deglutire una realtà che - pure così slabbrata e parcellizzata - non si può che guardare con un'amara ironia.
GMGhioni