Valerio Massimo Manfredi e Antonio Riccardi |
Finalmente il 2019 è stato l’anno giusto per me. Sono riuscita a visitare il Salone Internazionale del Libro di Torino e l’ho fatto con uno spirito diverso da quello che animava i miei desideri di visita negli anni passati. Se prima infatti avevo il sogno di immergermi in un evento, una comunità (come l’ha definita Nicola Lagioia) dal respiro più ampio rispetto a quello caratteristico dell’ambito accademico, adesso, invece, ho capito che per godere di tutto ciò che la letteratura mondiale ha da offrirmi, devo partire dall’Italia e dai suoi scrittori. Rimanere fermi per non farlo completamente. Per questo del ricco calendario di eventi della prima giornata del SalTo ho prediletto i dibattiti tenuti da autori italiani. Una scoperta per me, che ho da tempo indirizzato le mie letture verso scrittori angloamericani.
Ho iniziato con la presentazione dell’ultimo libro di Valerio Massimo Manfredi, Sentimento italiano. Storia arte e natura di un popolo inimitabile (SEM, 2019). L’autore da tredici milioni di copie nel mondo ha raccontato il perché di questo testo in onore della bellezza dello Stivale. Ringraziando i genitori contadini che gli hanno insegnato il culto della fatica e della perseveranza, ha compiuto un breve excursus della sua vita da studente, omaggiando Dante e Leopardi, Omero e Virgilio, il San Gerolamo in lacrime per l’invasione di Roma nel 410 d.C. e il Carducci imparato a memoria sui banchi di scuola. Questo per spiegare che pur avendo compiuto molti viaggi intorno al mondo, non ha trovato nessun luogo dove la letteratura avesse un contraltare geografico reale come accade nella nostra penisola. L’amore irrazionale (ammette) per il nostro Paese è scoppiato forte proprio nel momento in cui ogni classico che si è trovato a studiare poteva anche essere visto dal vivo semplicemente compiendo una gita in sella a una moto. Racconta poi un simpatico aneddoto: durante una cena in cui era presente anche il Primo Ministro di allora, quest’ultimo gli fece una domanda “impertinente” chiedendogli come facesse uno come lui, studioso di antichità romane, ad essere di sinistra. E lui rispose:
Vedi caro mio, io non sono né di sinistra né di destra, io semplicemente tifo Italia. Voto volta per volta per chi penso che ami l’Italia. È un dovere amare il proprio Paese, nonostante i difetti e i problemi. Perché al cuore non si comanda.
In una situazione quindi di innegabile difficoltà e noncuranza da parte delle istituzioni, Valerio Massimo Manfredi non ci sta e non vuole gettare la spugna. Anzi, confessando di aver incontrato i patrioti più accorati all’estero, alla fine dell’incontro fa una piccola chiamata alle armi di tutti i presenti, affinché nessuno si dimentichi della bellezza dell’Italia. Alla domanda, infine, circa la fuga dei nostri giovani cervelli (un tema presente anche nel libro, dato che un passo letto da Antonio Riccardi che moderava l’incontro era proprio il dialogo di Manfredi con il figlio che vuole lasciare l’Italia per gli USA), l’autore non può fare altro che prendere atto della cosa e ammettere, certamente, che la sua generazione ebbe più fortuna di quella attuale. Ma non per questo bisogna smettere di difendere il proprio Paese.
Rosella Postorino e Michela Marzano |
Poco più tardi ho assistito all’incontro sull’ultimo libro di Michela Marzano, Idda (Einaudi, 2019), moderato da Rosella Postorino. Grazie alle voci brillanti di due delle scrittrici (forse) più amate del panorama letterario italiano contemporaneo, la storia del romanzo della Marzano è diventata l’occasione per compiere importanti riflessioni su tematiche forti. L’autrice, insegnante di filosofia morale in Francia, ha una capacità espositiva mirabile e per questo parlare insieme a lei di identità, assenza, ricordo e del modo con cui l’individuo si crea agli occhi degli altri è stato un illuminante viaggio nel senso di sé. Dopo la spiegazione breve della trama (che rimando alla recensione di Gloria Ghioni), la Postorino ha iniziato chiedendo da dove sia nata l’urgenza per la Marzano di raccontare la storia di una malattia, l’Alzheimer, e in che modo questa coinvolga soprattutto le persone vicine al malato. La volontà è stata quella di provare a rispondere a un grande interrogativo: chi siamo quando iniziamo a perdere la memoria? Abbiamo la stessa identità di prima o l’assenza dei ricordi crea un nuovo individuo? Dal momento che l’autrice ha vissuto in prima persona l’esperienza della malattia che ha colpito la suocera, è stato forte in lei l’impulso di raccontare una storia che provasse a rispondere a questa domanda e all’altra che ha determinato, nel tempo, il suo passaggio dalla saggistica alla narrativa: che cos’è l’amore?
La risposta sfugge, inesorabile. Eppure ho sempre in mente Jacques Lacan che dice che l’amore è dare ciò che non si ha a chi non lo vuole. Se all’inizio non capivo cosa volesse dire, riflettendoci è estremamente vero. Perché noi vogliamo dare alla persona amata tutto quello che avremmo voluto ricevere (e che quindi non abbiamo), ma la persona amata, che è diversa da noi, probabilmente vorrebbe ricevere altro da quello che diamo e che, quindi, non vuole.
Se questo pensiero era già al centro del suo precedente romanzo, L’amore che mi resta (Einaudi, 2017), in Idda la carica dell’amore viene investita dal peso dei ricordi e calato in una dimensione diversa dell’amore genitoriale: quando una madre non è più in grado di amare il proprio figlio a causa della perdita dei ricordi ciò che non viene mai dimenticato è l’affettività. La Marzano racconta, infatti, che molti medici specialistici registrano un dato molto interessante durante le cure di chi perde progressivamente la memoria: anche quando l’afasia e l’oblio sembrano inesorabili, solo una frase non viene mai dimenticata. Ti amo. Due parole che restano, ancora, e che connotano inevitabilmente gli individui.
La ricostruzione identitaria non passa più per la razionalità ma per l’affettività.
Federica Antonacci e Andrea Pomella |
Alla domanda sul momento in cui ha deciso di scrivere di sé, Pomella ha risposto
Mi è venuto in mente un gioco che facevamo alle scuole elementari. La maestra ci chiedeva di scegliere una parola sulla cartina geografica da fare indovinare ai compagni. Ovviamente tutti noi sceglievamo il fiume più piccolo, il valico meno evidente, così da rendere impossibile l'identificazione. Invece presto mi resi conto che scegliendo i nomi più visibili, Mar Mediterraneo ad esempio, la vittoria era più sicura. Nessuno pensava di cercare la cosa più nota, pur avendola sempre sotto gli occhi. L’autobiografia è la stessa cosa. Gli eventi più belli e particolari sono sempre sotto i nostri occhi, solo che non ce ne accorgiamo. Per questo ho deciso che io, invece, li avrei raccontati.L’uomo che trema, che racconta in presa diretta i giorni di rieducazione dell’autore dopo la depressione, stira al massimo il concetto di letteratura non fiction. Secondo Pomella non solo perché ci sono stati momenti in cui molti interrogativi etici lo hanno bloccato durante la scrittura (Forse sto dirigendo la mia vita in funzione di quello che voglio scrivere?), ma soprattutto perché coinvolgere le altre persone lo ha sempre messo di fronte alla decisione di non risparmiare mai se stesso e di raccontarsi per quello che è senza alcun pudore. Questo è per lui il dovere dello scrittore. Non deludere mai l’aspettativa di realtà dei suoi lettori.
Federica Privitera
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