Paesaggi
di John Berger
a cura di Tom Overton
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Il Saggiatore, 2019
pp. 351
€ 39,00 (cartaceo)
di John Berger
a cura di Tom Overton
Edizione italiana e traduzione a cura di Maria Nadotti
Il Saggiatore, 2019
pp. 351
€ 39,00 (cartaceo)
Tanto vale dichiararlo subito: Paesaggi, la più completa raccolta di scritti di John Berger (1926-2017) su arte e letteratura, non parla di ciò che il suo titolo farebbe immaginare. O meglio, non ne parla nei termini convenzionali e prevedibili che sarebbe lecito aspettarsi da una simile dicitura. Nessuna trattazione sistematica, nessuna intenzione didattica, nessuna prospettiva accademica: se Tom Overton, curatore dell’edizione inglese, ha denominato Landscapes questa miscellanea è stato al fine di delimitare il terreno e offrire ai lettori uno spaccato della produzione più manifestamente teorica dell’autore, che qui – parallelamente a quella di pittore, critico, poeta, romanziere, sceneggiatore per il cinema e per il teatro – si mostra nella sua versione di saggista. Dunque, se di “topografie” e “geografie” pur sempre si tratta, anche queste non possono che essere sui generis, aperte come campi d’indagine esplorabili all’infinito, sempre un po’ più in rispetto a dove arrivano gli occhi; e del resto, come viene chiarito già nell’Introduzione (profetico il titolo: Abbasso gli steccati), «l’opera di Berger è un invito a ri-immaginare; a vedere in modi diversi» (p. 17). Soprattutto a vedere oltre i limiti, anche e specialmente quelli disciplinari.
Tradotto da Maria Nadotti e appena pubblicato in Italia da Il Saggiatore, il volume – arricchito con tre ulteriori testi rispetto all’originale: Leopardi (1983), Disperso al largo di Cape Wrath (1988) e L’infinità del desiderio (2000) – si articola in due distinti florilegi, Ridisegnare le mappe e Terreno: il primo incentrato su individui e personalità che hanno maggiormente colpito Berger o ne hanno influenzato il pensiero, il secondo caratterizzato da un’attenzione più marcata ai discorsi sullo spazio, sui luoghi e ovviamente anche sulla loro percezione e rappresentazione (a fare da cesura tra le due parti la poesia Terreno (Terrain), tratta dai Collected Poems del 2014). Il tutto senza una vera e propria organicità, anzi giustapposto in base a un criterio elastico di conformità alla categoria e con il solo supporto di una progressione (quasi sempre) cronologica degli interventi, la cui data di stesura viene rivelata alla fine dei singoli brani. Ecco perché, nella prima sezione, i testi dedicati a grandi nomi della cultura – tra gli altri: Walter Benjamin (definito un “antiquario romantico” e un “rivoluzionario marxista anomalo”), Ernst Fischer (di cui si racconta l’ultimo giorno in vita), Giacomo Leopardi (tradotto in inglese solo nel 1983!) e Gabriel Garcia Màrquez (il cui storytelling potrebbe aiutarci a capire di più il mondo e il nostro futuro, «quando la nostra cultura andrà in pezzi» (p. 115)) – si alternano liberamente a contributi come Disegnare sulla carta (1987) e Alla base di ogni dipinto e di ogni scultura c’è il disegno (1953), in cui Berger dissemina le sue riflessioni sui meccanismi di vera e propria “scoperta” dello spazio e del tempo da parte dell’artista, o altri in cui ribadisce a più riprese le sue convinzioni in materia (tra cui l’importanza che le opere formulino domande in linea con le esigenze della propria epoca e l’ostilità nei confronti dell’appropriazione capitalistica dell’arte).
Nella seconda sezione del volume – lasciati sullo sfondo altri grandi nomi quali Frederick Antal, Roland Barthes, James Joyce e Rosa Luxemburg proprio come fossero figure stagliate contro un orizzonte critico plurale – la raccolta prosegue con un gruppo di interventi in cui Berger tocca il tasto spaziale da una prospettiva più prettamente storico-artistica, confrontandosi con l’estetica rinascimentale, romantica, vittoriana e sovietica, dedicando pagine al Cubismo e a mete deputate dell’arte quali Parigi e Venezia (due interventi a dire il vero non troppo lusinghieri, quelli stilati negli anni Cinquanta circa una Ville Lumière «malata d’arte, vittima di seconda o terza generazione del suo stesso genio» (p. 207) e la città della Biennale). In Terreno, tuttavia, trovano posto anche contributi più generali sull’arte, il suo statuto e il suo ruolo nel Novecento: testi come Arte e proprietà oggi (1969), Basta ritratti (1967), La funzione storica del museo (1969) e L’opera dell’arte (1978) colpiscono il lettore per la loro attualità, a dispetto del tempo trascorso dalla loro prima apparizione.
Anticipando le considerazioni espresse da Maria Nadotti nella breve nota di chiusura – chiosa perfetta e illuminante a un volume assai corposo che potrebbe disorientare gli estimatori delle trattazioni più lineari – tale selezione di saggi esalta al meglio alcune caratteristiche dell’autore: innanzitutto «la curiosità intellettuale che, tagliata con una buona dose di audacia, non diventa mai erudizione fine a se stessa» (p. 344); in secondo luogo l’impostazione politica del suo discorso critico, ovvero la convinzione che l’arte, per essere veramente tale e veramente grande, debba sempre «annunciare il nuovo, rompendo con un ordine prestabilito vantaggioso per pochi» (p. 345); infine il coinvolgimento del pensatore e del critico nel reale e nell’esistente, vale a dire la sua insofferenza nei confronti di una teoria ipotetica (e dunque di una mera “mappatura”) disgiunta da una pratica concreta (vale a dire il confronto diretto con il “terreno” nella varietà della sua morfologia). A dispetto della godibilissima transitività della sua prosa, chi si avvicina alla scrittura di Berger per la prima volta proprio con Paesaggi (volume che, peraltro, fa da complemento al precedente Ritratti, pubblicato nel 2018 sempre per Il Saggiatore) potrebbe forse sentirsi vittima di una qualche forma di disorientamento, quasi una perdita di coordinate per eccesso di indicazioni verso mete tutte parimenti stimolanti. Meglio centellinarlo con pazienza, allora, quel tanto che basta per allinearsi almeno un poco alla forma mentis di un autore che non avrebbe nulla in contrario rispetto a una lettura rapsodica del suo lavoro:
«non ho mai pensato alla scrittura come a una professione. È un’attività solitaria e indipendente il cui esercizio non produce una superiorità professionale. Fortunatamente chiunque può dedicarcisi. Quali che siano i motivi, politici e personali, che mi hanno portato a impegnarmi a scrivere qualcosa, la scrittura diventa, non appena mi ci metto, una lotta per dare un senso all’esperienza. Ogni professione ha limiti di competenza, ma anche un proprio territorio. La scrittura, per quanto ne so, non ha un territorio tutto suo. L’atto dello scrivere non è che un atto di avvicinamento all’esperienza di cui si scrive; così come è auspicabile che la lettura di un testo scritto sia un analogo atto di avvicinamento» (pp. 87-88).
Cecilia Mariani
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