Gun love
di Jennifer Clement
traduzione di Silvia Castoldi
Bompiani, 2019
pp. 264
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
All’inizio rimasi zitta. E poi fui molto grata per il fatto che il mio cuore battesse da solo, perché sapevo che non sarei mai stata capace di farlo funzionare se fosse dipeso da me. I battiti indipendenti del mio cuore, che lavorava anche se succedevano cose terribili, mi riempirono di tenerezza per il mio corpo e la mia vita insignificante. (p. 136)
Due sono gli elementi che rendono la prosa di
Clement altamente lirica, a tratti sconfinante nella poesia: il suo continuo
attingere al repertorio biblico e country da un lato e il frequente
ricorso alle immagini.
Nel primo caso Clement riesce, attraverso l’uso di
un repertorio comune e fortemente iconico, a imprimere nella mente del lettore
i due sentimenti dominanti di Gun love,
ossia la severità di una vita dominata dal dovere e la dolcezza dell’amore
materno che con quella severità deve avere a che fare; elementi, questi due, che si
intersecano e vivono all’interno di Margot, madre della piccola protagonista
Pearl, un personaggio bellissimo e difficilmente dimenticabile, che lotta
per mantenere un equilibrio sempre più precario fra i due piatti della bilancia
perché è consapevole che una vita di soli doveri è vuota e triste, mentre una di solo
amore rischia di rendere deboli e inadatti al mondo spietato che esiste là
fuori – e per “là fuori” è da intendersi: senza di lei, senza la figura
materna, unico punto di riferimento di una bambina cresciuta senza una
famiglia, senza una casa che possa definirsi tale.
Nel secondo caso, invece, il ricorso alle immagini
attenua la durezza di una scrittura che giustamente viene associata dal The Observer, nella bandella di quarta, a quella di McCarthy, sia per
ambientazione sia per stile. L’asperità della scrittura riflette la durezza dei
territori e quella delle persone che li abitano, e dunque è qui
che interviene l’uso evocativo delle immagini: se Margot è «una tazza di
zucchero» che si può prendere «in prestito quando volevi» (p. 9), allo stesso
modo «ci sono parole così affilate che ti ci puoi tagliare» (p. 166), così come
persone che hanno la voce come una ninna nanna e altre maledette e
sacre come l’albatros di Coleridge.
Leggendo le pagine di Clement si ha la
sensazione di camminare su una strada arida e polverosa (come quella, per
restare in tema, di McCarthy su cui viaggiano neanche a farlo apposta un padre
e un figlio ai confini del mondo) con la minuscola ma invitante speranza di
riuscire a scorgere un fiore colorato cresciuto fra le crepe, là dove meno ce
lo si aspettava. La sua è una scrittura potentissima e immaginifica.
Il punto debole di questo romanzo è invece la
trama: Clement impiega circa metà delle pagine a costruire gli ambienti e i
personaggi, donando loro credibilità là dove la situazione risulta sempre a
rischio inverosimiglianza, ma quando scatta l’evento che scombussola tutto
questi personaggi e questi luoghi vengono abbandonati in favore
di una nuova situazione la quale, oltretutto, non riesce a brillare di luce
propria come la precedente. I nuovi personaggi risultano più
stereotipati e si fatica a conservarli nella memoria perché poco hanno da dire, e quel che dicono risulta poco tangibile nell'economia della storia; così come
ciò che accade dopo non sembra seguire una scia precisa, al punto che quando si arriva al
finale lo si fa in maniera quasi inaspettata. Poiché gli eventi che portano
alla risoluzione della trama paiono più fortuiti che ricercati, quello che
sembra mancare è un effettivo arco di trasformazione del personaggio, qualcosa
che lasci il lettore con la sensazione di aver ricevuto la giusta ricompensa
per la fiducia accordata all’autrice.
Gun love
è dunque un romanzo bello nel complesso, qualcosa che vale la pena leggere già solo per la capacità descrittiva di Clemen. Se, tuttavia, come si legge
nella nota del The Observer, si chiude
il libro con la speranza che fosse più lungo, a mio avviso non è tanto per
«poter passare più tempo nel suo mondo perfettamente compiuto» quanto per il fatto
di non aver avuto abbastanza da un mondo che, al contrario, non risulta
compiuto nella più perfetta delle maniere.
David Valentini