Istruzioni per diventare fascisti
di Michela Murgia
Einaudi, 2018
pp. 100
€ 12 (cartaceo)
Quelle che seguono sono quindi istruzioni di metodo e in particolare istruzioni di linguaggio, l'infrastruttura culturale più manipolabile che abbiamo. Perché mai uno dovrebbe rovesciare le istituzioni se per ottenerne il controllo gli basta cambiare di segno a una parola e metterla sulla bocca di tutti? Le parole generano comportamenti e chi controlla le parole controlla i comportamenti. È da lì, dai nomi che diamo alle cose e da come le raccontiamo, che il fascismo può affrontare la sfida di tornare contemporaneo. Se riusciamo a convincere un democratico al giorno a usare una parola che gli abbiamo dato noi, quella sfida possiamo vincerla. E vinceremo.
Michela Murgia nel suo ultimo saggio gioca. Mette in pratica il pericoloso gioco di essere una “moderna fascista”, intenzionata a voler smascherare tutti i “falsi democratici”, partendo col prendersela con la democrazia. In questo gioco le regole sono spietate e la scrittrice prende in giro, sbeffeggia un po' tutti in maniera così seria ‒ ma solo in alcuni passaggi ‒ che a tratti potrebbe quasi sembrare drasticamente credibile e convinta.
In alcune pagine il gioco si fa pesante, sembra quasi voglia convincere il lettore, con tutte le argomentazioni più contemporanee e d'attualità, che “essere fascista è meglio”.
La scrittrice si impegna, ma il lettore che non è sprovveduto, saprà riconoscere la geniale sagacia e la sottile astuzia perpetuata da un capitolo all'altro.
L'autenticità di questo “manuale” sta infatti nel riproporre concetti banali, beceri, imbarazzanti che quotidianamente sentiamo e leggiamo ovunque ‒ dalla televisione, ad alcuni quotidiani, persino al bar nei tavoli vicini‒ , spesso motivati e legittimati pure dall'autrice. Murgia ce li sbatte in faccia, ci costringe a leggerli, ci mette in allerta ‒ a ragion veduta ‒ da ciò che sta accadendo in Italia in questo periodo. E lo fa richiamando vecchi contenuti politici che di questi tempi, come l'Araba Fenice, sono “risorti” (anche se la scrittrice evidenzia che non sono mai “morti”) e con le ali sporche di naftalina e sangue stanno tornando in auge.
Manipolando gli strumenti democratici si può rendere fascista un intero paese senza nemmeno pronunciare mai la parola “fascismo”, che comunque un po' di ostilità potrebbe sollevarla anche in una democrazia scolorita, ma facendo in modo che il linguaggio fascista sia accettato socialmente in tutti i discorsi, buono per tutti i temi, come fosse una scatola senza etichette ‒ né di destra né di sinistra ‒ che può passare di mano in mano senza avere a che fare con il suo contenuto.
Le tematiche ci sono tutte, non ne ha trascurata una ed è stata formidabile nel riuscire a trattarle in poco meno di cento pagine. Dalla famiglia al ruolo delle donne, dal femminismo sino ai diritti LGBT. Dalla distinzione che intercorre tra “capo” e “leader”, dai nemici politici ai “nemici sociali”, dal patriarcato al matriarcato, dalla violenza motivata alla diffusione di armi, dal populismo al popolare. Per arrivare in conclusione alle date storiche e alle giornate della memoria.
Sin dalle prime pagine attacca la democrazia asserendo che la sua alternativa politica più sperimentata, il fascismo, sia il sistema migliore per la gestione dello Stato. E da qui in poi vi è un confronto tanto esilarante quanto terrificante tra fascismo e democrazia, tra fascisti e democratici. “Michela la Sanguinaria” si fa portavoce, poco credibile ‒ da qui il paradossale e sarcastico epiteto nonché titolo ‒ di un movimento ideologico (che lei tuttavia definisce “metodo” politico) che è spietato ma che con la sua ironica penna rende così ridicolo da indurre in tentazione solo i demoni che già hanno una simile forma mentis.
Se questo fosse un tempo maturo per chiamare le cose con il loro nome, bisognerebbe riconoscere che il sistema meno costoso in assoluto è la dittatura, dato che se ne paga solo uno. Essendo però noi ancora lontani da quel livello di virtuosa amministrazione delle risorse, darsi un capo che decide con poche persone sarebbe già un bel passo avanti nel taglio dei costi attuali.
Nel frattempo continuare a far notare quanto ci costa l'amministrazione democratica sarà utile per creare le condizioni per eliminarla. Ricordare quanto paghiamo i parlamentari, chiedere di continuo la riduzione dei loro stipendi, delle loro scorte, dei loro vitalizi e di ogni forma di finanziamento ai partiti è un argomento che garantisce un consenso trasversale, perché tutti sono convinti che i politici ci costino troppo. A forza di ripeterlo, persino tra i democratici alla fine passerà l'idea che a costare troppo sia la democrazia stessa.
Il gioco non si ferma mai. È un'instancabile partita a scacchi in cui Michela Murgia muove sia i pezzi neri che i pezzi bianchi (ed è alquanto superfluo spiegare chi siano gli uni e chi siano gli altri). Il gioco si fa duro quando attacca molti rappresentanti dell'una e dell'altra fazione. La lotta costante è sempre tra democratici e fascisti. Il libro diviene così una spicciola guida per entrambi, in quanto vengono evidenziate le falle su cui puntare il dito e le eventuali risposte da fornire in caso di attacco, da ambedue le fazioni. Destra e sinistra. Fascisti, radical chic, democratici e moderati democratici. Tutti sotto attacco.
La colonna sonora ad hoc per alcuni passaggi di questo saggio è “Destra Sinistra” di Giorgio Gaber.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
Ma io dico che la colpa è nostra
È evidente che la gente è poco seria
Quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
[Giorgio Gaber, Destra Sinistra]
Anche se non hanno reagito prima, è certo che a quel punto i democratici smetteranno di chiamarvi nostalgici e cominceranno a definirvi negazionisti, ma le cose saranno andate così avanti che potrebbe essere complicato stabilire chi è che nega cosa.
Il discorso si dipana dal contrasto tra dittatura e democrazia. Non ci si sofferma nel definire, partendo dall'etimologia del termine, il significato di democrazia, perché si aprirebbe un'epitome atavica che comporterebbe scomodare Platone e Aristotele e giungere quindi sino all'Antica Grecia. Del resto la scrittrice stessa non fornisce alcuna definizione, salvo aprire la sua “guida” ricordando una delle frasi di Winston Churchill, secondo il quale: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Sono tuttavia ingenti i riferimenti intellettuali e culturali tirati in ballo in maniera sottintesa tra una riga e l'altra, tra una frase comica e una frase spaventosa.
Karl Popper, filosofo politico del secolo scorso, grande sostenitore della democrazia, è onnipresente. Popper attaccava la televisione, definendola un potente mezzo di controllo delle masse (e come dargli torto?) sfruttato male dalla democrazia, ma potenzialmente deleterio e nocivo per essa stessa. Michela Murgia rielabora la teoria aggiornandola ai giorni nostri, sostituendo alla televisione il potere oramai arcinoto dei social network. Si tratta di mezzi di comunicazione che stanno soppiantando le fonti più autorevoli e in taluni casi più affidabili rispetto ai quotidiani, telegiornali, ecc. I primi a coglierne l'importanza e la potenza sono stati i politici contemporanei, i quali estraniano dal loro lavoro il confronto con i giornalisti e con gli intellettuali a favore delle auto-dichiarazioni rilanciate su svariate piattaforme. Questo passaggio si riconduce ad un altro filone che verrà approfondito tra qualche riga, ossia la contemporaneità del testo in esame.
Si scorge Popper anche nel capitolo Nel dubbio mena dove si analizza la violenza in rapporto alla non violenza. Il filosofo asseriva infatti che: “vi sono soltanto due tipi fondamentali di istituzioni: quelle che consentono un mutamento senza spargimento di sangue, e quelle che non lo consentono. […] Personalmente, preferisco chiamare democrazia il tipo di reggimento politico che può essere sostituito senza l'uso della violenza, e tirannide l'altro”. Questo concetto ‒ tra l'altro fondato su basi di buonsenso prima ancora che su basi politiche ‒ riassume in toto quanto espresso nel capitolo sopra citato, dove la violenza è prerogativa del fascismo e la non violenza dei democratici.
Anche il capitolo Non ti scordar di me dedicato alla memoria storica, alle giornate della memoria e alle date importanti e celebrate ogni anno in Italia si può ricondurre al pensiero di Popper: “non ci può essere nessuna storia del passato così come questo veramente accadde. Ci possono essere solo interpretazioni storiche, e nessuna di questa è definitiva; e ogni generazione ha il diritto di crearsi le sue proprie interpretazioni”. Non ci dilunghiamo nel disquisire quanto questa affermazione sia giusta o sbagliata, quanto sia razionale o bestiale, sarebbe persino inopportuno in questa sede, ma è sufficiente evidenziare il nesso tra quanto scritto nel capitolo e quanto sostenuto dal filosofo.
La paura della perdita della memoria storica è quanto di più preoccupante sia stato auspicato nel manuale. Una paura moderna che di questi tempi coinvolge tutti. Il direttore di La7 Enrico Mentana ha detto la sua, differenti mesi fa, sull'argomento descrivendo la sua fobia più grande, ossia che con la perdita degli ultimi testimoni nonché vittime dell'Olocausto, si vada a degradare, inficiare e alla lunga a perdere la memoria di un orrore, con conseguenze che potrebbero essere terrificanti.
Quando viene affrontato il tema della violenza, delle armi e dunque, in sintesi della sicurezza e della paura, non si può non pensare a Zygmunt Bauman e al suo saggio “Il demone della paura” (recensione presente nel sito). I collegamenti e i riferimenti ci sono tutti, sarebbe interessante chiedere all'autrice se e quanto abbia influenzato la lettura del suddetto saggio.
Sorge il dubbio che la scrittrice sarda non sia stata ispirata e “contagiata” anche da un altro saggio, “Il fascismo eterno” di Umberto Eco.
Sono molteplici i punti in comune con i saggi di Bauman ed Eco, ma la nostra Sanguinaria è stata in grado di rielaborarli e fonderli in un unico testo, il suo, modernizzando i concetti e attualizzando gli argomenti.
E sempre seguendo la radicale scia rossa (perché sarebbe oramai riduttivo seguire un banale fil rouge) dei riferimenti ad altri scrittori e intellettuali, non si può non cogliere tutto il “George Orwell” presente, contenuto e menzionato qua e là in poco meno di cento pagine. Ma non solo, perché per quanto concerne la parte inerente il linguaggio e le parole che dovremo o meno usare, si annusa in lontananza (e magari questo no, non è voluto) un po' anche di Gianrico Carofiglio con “La manomissione delle parole”.
Affinché la violenza torni a essere uno strumento di lotta politica è essenziale abbandonare ogni mezza misura espressiva e chiamare giorno per giorno le cose col loro nome. Questo è necessario soprattutto quando si parte dallo svantaggio dell'iniziale convivenza con la democrazia, che fa di tutto per cambiare i nomi alle cose. In quel contesto, da fascisti dobbiamo pretendere che almeno nelle nostre parole i negri smettano di essere «persone di colore» e tornino a essere negri. Le troie non sono «lavoratrici del sesso», gli handicappati non sono «diversamente abili», la condizione contro natura degli invertiti non deve essere negata dentro all'incomprensibile sigla LGBT e la rottura di coglioni deve smettere di essere edulcorata chiamandola «contrattempo», perché è una rottura di coglioni.
Siamo in tempi in cui le fonti di informazione hanno perso autorevolezza e la fondatezza delle affermazioni tende per tutti al grado zero (cfr. istruzione 3 sulla banalizzazione). Ciascuno a quel punto difenderà la sua veridicità ad armi pari, ma grazie al vostro lavoro i ragazzini che nasceranno negli anni della decostruzione avranno molti più strumenti della generazione precedente per capire che la storia scritta dai vincitori non era necessariamente tutta vera.
Liliana Segre sulla democrazia asserisce: “ho la paura della perdita della democrazia, perché io so cos'è la non democrazia. La democrazia si perde piano piano, nell'indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c'è chi grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui”.
Lei, contemporanea sopravvissuta all'Olocausto, è testimone anche di cosa sia e cosa significhi oggi “democrazia”.
George Orwell, intellettuale del secolo scorso (giornalista, scrittore, saggista, attivista e critico letterario) ha scritto tanto, tantissimo sul potere, sulla democrazia, sui soprusi politici. E infatti, non serve cercar lontano da “La fattoria degli animali” per cogliere il senso di tutto il sopra lavoro altrui descritto e argomentato, in una manciata di sue righe:
Come sempre, Palla di Neve e Napoleon erano in disaccordo. Secondo Napoleon, ciò che gli animali dovevano fare era procurarsi armi da fuoco e addestrarsi al loro uso. Palla di Neve era invece del parere che si dovessero spedire stormi e stormi di piccioni a suscitare la Rivoluzione fra gli animali delle fattorie. L'uno argomentava che se non avessero saputo difendersi da soli erano destinati a esser vinti; l'altro ragionava che, se la Rivoluzione fosse scoppiata dappertutto, essi non avrebbero avuto più bisogno di difendersi. Gli animali ascoltavano prima Napoleon, poi Palla di Neve e non sapevano decidere chi dei due avesse ragione. In realtà si trovavano sempre d'accordo con quello che parlava al momento.
[da George Orwell, La fattoria degli animali]
La contemporaneità del testo è evidente, ricca di esempi concepiti tra una parola e l'altra che descrivono quanto i telegiornali o i social ci mostrano ogni giorno, ad ogni ora.
Ciò che va in scena oggi in Italia non è tutta o sempre colpa nostra, neppure dei presunti e sprovveduti elettori, pardon, lettori. Ma non dobbiamo e non possiamo sentirci “salvi”, “innocenti” e “non-responsabili” perché comunque uno su due lo ha scelto.
Se non sei tu, è il tuo vicino. Se non sei tu, è tua moglie. Se non sei tu, è il tuo capo.
Poi c'è il fascistometro.
Sei ancora sicuro di non essere tu?
I democratici reagiranno con shock, perché questo romperà il loro schema ipocrita, ma voi ‒ che parliate in un comizio, davanti al microfono di un giornalista, dalle pagine di un quotidiano o in un banco del parlamento ‒ invocate sempre il diritto di espressione, di critica politica o di satira. Ripetete che state facendo «provocazione», un'espressione che in democrazia significa curiosamente che non state facendo niente di concreto, ma in realtà state facendo proprio quello che la parola significa: provocare il pensiero violento nella speranza che porti all'azione conseguente.
Alessandra Liscia
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