Carvalho. Problemi d'identità
di Carlos Zanón
SEM, 2019
Traduzione di Bruno Arpaia
pp. 336
€ 18 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Qualche decennio fa, in una serie di articoli pubblicati su Interviu (celebre rotocalco spagnolo e uno dei simboli della liberazione culturale post-franchista), Manuel Vázquez Montalbán fingeva di discettare di politica con un giovane investigatore privato, che aveva preso in affitto l’ufficio sopra il suo, in carrer de Ferran, sulla Rambla. Il nome del detective era Pepe Carvalho.
Il genio di Manuel Vázquez Montalbán è stato poliedrico e difficile da racchiudere in una definizione del tipo “giornalista e scrittore di romanzi noir”. È stato molto di più: poeta, romanziere, biografo, è stato il cronista disincantato di un’epoca, una città, un Paese e un continente. Ha attraversato la seconda metà del XX secolo penna alla mano. Lucido osservatore della realtà che lo circondava, riuscì a trasformare in Letteratura tutti i generi che toccava, anche quelli che fino ad allora erano considerati intrattenimento puro, come il noir e la cronaca sportiva. Celebre rimase un articolo intitolato “Barça Barça Barça” in cui l’autore de I mari del sud spiega l’importanza sociologica del calcio e del rito di andare allo stadio. Per tutta la dittatura, il Camp Nou, lo stadio del FC Barcelona, era l’unico luogo in cui i barcellonesi potessero parlare liberamente, imprecare, mandare al diavolo, perfino bestemmiare, in un Paese sotto il giogo di una dittatura nazional-cattolica ferocissima.
Sul noir, Vázquez Montalbán ha sempre affermato che era un falso mito quello che lo relegava a una letteratura di serie B. Fu tra i primi a rivendicarne la capacità di descrizione della realtà e di svelamento degli inganni del potere egemonico. E lo dimostrò con la serie Carvalho: i primi tre romanzi (Tatuaje, Los mares del sur e La soledad del manager) rappresentano, forse, il più preciso quadro sociale, politico e umano della Spagna della Transizione democratica. Molto più che una serie noir; di Vázquez Montalbán si potrebbe dire quello che spesso si dice di Sciascia (e non a caso i due si stimavano reciprocamente): il poliziesco è solo la forma narrativa che viene utilizzata per raccontare una realtà che va ben oltre la letteratura di genere.
Allo stesso tempo, tutto ciò che viene dopo, a partire dalla fine degli anni ’80 e fino all’ultimo, magistrale, romanzo, Milenio Carvalho, un testamento umano, letterario e sociale che non sfigura in libreria accanto agli altri due capolavori universali della letteratura in spagnolo, Don Quijote e Cien años de soledad, tutto ciò che occupa, quindi, l’ultima parte della produzione letteraria di Vázquez Montalbán rappresenta la frustrazione, la delusione e il disincanto delle speranze che negli anni ’60 e ’70 avevano mosso l’intero pianeta e che sul finire del millennio si infrangono sul muro di cemento delle crisi economiche, delle ripetute guerre, della disoccupazione galoppante. In un’intervista rilasciata a Canal + poco prima di morire, e volutamente pubblicata postuma, Vázquez Montalbán afferma che negli anni ’90 le parole speranza e futuro avevano perso quella pienezza di significato che avevano, invece, qualche decennio prima; Carvalho rappresenta tutta la disillusione che questa perdita significa.
E continua a rappresentarlo in Carvalho. Problemi di identità, di Carlos Zanón (SEM, 2019). Quando, circa un anno e mezzo fa, venne diffusa in Spagna la notizia di una nuova avventura dell’investigatore creato da Manuel Vázquez Montalbán senza la penna di Manuel Vázquez Montalbán (che riposa in pace dal 2003), una sensazione di scetticismo prese il sopravvento. Ma non potevo arrendermi al fatto che la famiglia dell’autore fosse caduta in una banale operazione di marketing e decisi di dar credito al romanzo. Il risultato, lo dico fin da ora, è un libro di Carlos Zanón, scritto da Carlos Zanón, con lo stile e la prosa di Carlos Zanón, che, però, ha come protagonista un personaggio di Manuel Vázquez Montalbán. Alla lontana, può ricordare il Ricardo Reis di Fernando Pessoa che José Saramago fece rivivire in L’anno della morte di Ricardo Reis.
In una Barcellona alla vigilia del caldo autunno indipendentista del 2017, un Pepe Carvalho sessantenne, acciaccato, innamorato come un adolescente e diviso tra Barcellona e Madrid, deve indagare su due casi di omicidio: quello di una giovane prostituta tossicodipendente, La Niñata, nei boschi della montagna di Montjuic e quello plurimo di una famiglia residente nel quartiere borghese barcellonese dell’Eixample. Il Carvalho che abbiamo davanti, però, non è quello de I mari del sud o Tatuaggio, semmai è più simile a quello della Rosa di Alessandria o, comunque, molto vicino al Pepe Carvalho reale, o almeno quello che Vázquez Montalbán voleva fosse il vero Pepe Carvalho e con cui dialogava nelle pagine di Interviu. Il romanzo di Zanón è un’iperbole metaletteraria che proietta il lettore un’ultima volta nell’universo montalbaniano, con un Carvalho che parla in prima persona (tutta la serie è narrata in terza) e che è un flusso di coscienza disincantato, disilluso, ma mai rassegnato e sempre solerte di fronte ai piaceri della vita: quella joie de vivre che è la cifra del noir cosiddetto mediterraneo.
Alessio Piras
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