Renato Guttuso a Varese.
Opere della Fondazione Pellin
a cura di Serena Contini
Opere della Fondazione Pellin
a cura di Serena Contini
Nomos Edizioni, 2019
pp. 96
€ 18,90 (cartaceo)
pp. 96
€ 18,90 (cartaceo)
Giugno 1974, Isola di Ischia, hotel Regina Isabella, bordo piscina: è una cornice tutto sommato piuttosto glamour quella in cui si conoscono Renato Guttuso e Francesco Pellin, entrambi ospiti dello stesso albergo in compagnia delle rispettive mogli, Mimise e Adriana. Il primo (Bagheria, 2 gennaio 1912 – Roma, 18 gennaio 1987) è uno dei pittori più importanti e impegnati politicamente del secondo dopoguerra, mentre il secondo è un imprenditore con la passione per l’arte. La simpatia è immediata, accresciuta dal fatto che i due sono, per così dire, dirimpettai: il siciliano, che pur risiede a Roma, ha una casa di villeggiatura a Varese che usa anche come studio, mentre l’altro abita a Busto Arsizio. Nasce così, per di più impreziosito dall’occasione del premio cinematografico Angelo Rizzoli, un rapporto di reciproca stima che durerà per anni, destinato a evolversi secondo modalità che sembrano debitrici dalla fantasia di uno sceneggiatore: si, perché non solo Francesco Pellin sarà, fino alla morte del Maestro, uno dei suoi più cari amici e confidenti, ma diventerà intenzionalmente anche il suo più esclusivo e devoto collezionista. Proprio questo legame rivive oggi in una mostra attualmente in corso al piano terra di Villa Mirabello a Varese, visitabile fino all’inizio del nuovo anno, e di cui Nomos Edizioni ha appena dato alle stampe il catalogo.
Nutrita di venticinque opere (tra cui, dulcis in fundo, la celebre Spes contra spem, accompagnata da un cospicuo numero di studi), l’esibizione è l’esito felice di una serie di accadimenti la cui origine risale proprio a quegli anni Settanta che fecero da sfondo al primo incontro tra Guttuso e Pellin. Chissà se i loro destini si sarebbero affiancati altrettanto bene in assenza del comune denominatore lombardo, vale a dire se il pittore siciliano non si fosse innamorato di Villa Dotti, proprietà della moglie Mimise, e non avesse deciso di restaurarla per abitare periodicamente proprio a Velate, presso Varese, per oltre trent’anni a partire dal 1953. Proprio lui che, pur segnato dall’origine nell’isola del profondo sud, trovava in quegli ambienti così nuovi e diversi il perfetto buen retiro per meditare e creare. Il resto, come si dice, è storia, anzi in questo caso storia dell’arte. Fino al più recente passato, a quel 13 marzo 2018 in cui l’Amministrazione Comunale di Varese e la Fondazione Francesco Pellin per lo studio e la valorizzazione dell’opera di Renato Guttuso, nata nel 2000, hanno scelto di sottoscrivere un Accordo di Comodato d’uso della durata di dieci anni affinché ventuno opere del pittore vengano prestate gratuitamente e rese fruibili alla collettività attraverso eventi a carattere temporaneo. E dunque eccole, in tutta la loro grandeur, a partire proprio dai ritratti della coppia di collezionisti passando per capolavori come L’atelier (1975) e Van Gogh porta l’orecchio tagliato al bordello di Arles (1978), prescelto anche per la copertina del volume.
Se è vero che la qualità di un catalogo si giudica dai testi oltre che dalle immagini, quello edito da Nomos è un esempio virtuoso della categoria: i tre contributi – Un siciliano nel profondo Nord. Guttuso a Velate di Fabio Carapezza Guttuso, Una questione dei identità di Daniele Cassinelli e Il pittore e il collezionista, per l’arte e per l’affetto di Serena Contini – esplorano al meglio il legame tra l’artista e la città d’adozione, analizzando questioni meramente geografiche e altre legate invece alle relazioni che il pittore ebbe modo di coltivare come conseguenza delle lunghe permanenze nella dimora-atelier. Oltre alle vicissitudini private che portarono all’acquisto di Villa Dotti, si ha dunque modo di approfondire una consuetudine di vita e di lavoro fatta di orari, rigore e applicazione ma anche di convivialità e abitudini apparentemente stravaganti: basti pensare, per esempio, alla nota gestazione del quadro Vucciria, per il quale il pittore si faceva recapitare direttamente da Palermo tutte le merci protagoniste del dipinto che poi la cuoca lombarda avrebbe diligentemente provato a “tradurre” in specialità culinarie settentrionali. Sono testi, insomma, che indulgono poco in tecnicismi storico-artistici, e che preferiscono rendere conto delle opere in mostra attraverso una trattazione, per così dire, di contesto, desiderosa di restituire un’atmosfera e uno spaccato importante del percorso esistenziale e artistico del pittore. Per questo anche il commento dei singoli dipinti, precedente la lunga nota biografica che chiude il volume, è affidato alle parole dello stesso Guttuso: brevi dichiarazioni, stralci di interviste, brani tratti da lettere o da articoli su quotidiani sono il giusto supporto verbale alle immagini, occasione per apprendere dalla viva voce del Maestro il senso della sua predilezione per (tra gli altri temi) il nudo femminile, lo sport o la denuncia sociale.
Va da sé che Renato Guttuso a Varese sarà un acquisto quasi obbligato per gli appassionati del pittore, che aggiungeranno alla propria biblioteca un volume dal taglio originale, primo momento di un’auspicabile serie in divenire che dia conto della collezione Pellin nella sua totalità. La sua natura di catalogo, inoltre, porta con sé il valore aggiunto tipico di questo genere di pubblicazioni, ovvero il porsi come testimonianza specifica di un processo di celebrazione in atto, forte di una ricchezza di dettagli e di una peculiarità prospettica altrove manchevole. I testi critici e la preziosità di un apparato fotografico di ottima qualità – apprezzabile soprattutto negli scatti privati che ritraggono il pittore in studio e in villa, da solo e in compagnia della moglie e degli amici – fanno di questo libro il giusto supporto cartaceo a una mostra che celebra soprattutto la virtuosità di un rapporto e di un legame: quello di Guttuso con una regione e in particolare con una città (non va dimenticato che a Varese dipinse anche la parete esterna della III cappella del Sacro Monte), e quello dello stesso artista con l’estimatore di una vita, grazie alla cui devozione è oggi possibile ammirare una selezione significativa di un vasto e assai celebrato corpus di opere.
Cecilia Mariani