La lingua della terra
di Giacomo Revelli
Arkadia, 2019
pp. 200
€ 14 (cartaceo)
I Lüghéi furono i primi a parlare la lingua sconosciuta di quel ragazzo: non doveva esserle più straniero di un gatto selvatico arrivato dal bosco, o più estraneo di uno dei passeri che vengono a beccare le olive dimenticate dalla battitura. Ma il linguaggio della terra è lo stesso ovunque, sta scritto pochi centimetri sotto la sua superficie, basta un colpo di zappa per impararlo. (p. 89)
Lo straniero, ossia l’estraneo, l’esterno, qualcuno
che non appartiene a un determinato luogo, a u determinato costume, a un
determinato idioma: la sua apparizione nelle campagne liguri, a giudicare dall’immagine
di copertina, dalla bandella di prima e dalla quarta di copertina, sembra
essere ciò che mette in moto gli eventi del romanzo di Revelli e che sta al
centro della sua narrazione. Dico “sembra” perché in realtà la vicenda che vede
protagonisti Bedé e lo straniero è una delle due facce della stessa medaglia che, nel risvolto,
trova un romanzo di formazione incentrato sui due figli di Bedé i quali, nel
giro di un anno – e soprattutto di un’estate – scoprono l’amore o decidono il
proprio destino universitario. Queste due storie scorrono quasi parallele,
intrecciandosi ogni tanto nella figura del capofamiglia e nell’ambientazione
rurale, per poi annodarsi in maniera indissolubile verso la fine, quando la “questione
dello straniero” esplode, a mio avviso un po' in sordina.
La narrazione che Revelli offre al lettore è densa
degli odori e dei sapori della campagna e riesce veramente ad affondare le radici nella terra da cui
tutto nasce e nella quale tutto finisce. In questo la sua penna è degna di
nota, complice anche il largo uso del dialetto che a volte risulta difficile da
digerire (di sfuggita: avrei evitato la traduzione in italiano delle frasi in
dialetto? Forse, in quanto sa molto di didascalico; avrei capito tutto quello
che viene espresso in dialetto? Sicuramente no) e il ricorrere a una
terminologia precisa e netta presa direttamente dal vocabolario agricolo, in
grado di far “scendere” il lettore fra gli olivi, in mano un rastrello o una
rete, la schiena dolente per le ore di lavoro fra i campi.
Questa potenza espressiva tuttavia viene a perdersi
un (bel) po’ quando si affronta l’altro tema: le vicende dei due fratelli, che
pure si prendono la loro bella fetta di pagine, sono interessanti quanto
basta per proseguire la lettura, ma indubbiamente da lettore avrei preferito
saperne di più sulle origini dello straniero (a cui viene dedicato poco spazio,
come se nell’angolo ci fosse una “questione migranti” che qualcuno, altrove, in
un altro libro, dovrebbe affrontare) o vedere le conseguenze della sua abitazione
clandestina, piuttosto che conoscere i dettagli dell’estate ligure, delle giornate
che i ragazzi trascorrono con le milanesi, fra un «bagnètto» e un dj set.
A mio modesto parere La lingua della terra è un testo che tradisce le aspettative del
lettore, anche se non in maniera necessariamente negativa: da un lato è vero
che chi si avvicina a questo romanzo dovrebbe sapere che NON tratta soltanto
dell’incontro fra due culture, sebbene questo aspetto venga più volte mostrato,
perché senza dubbio Revelli marca bene la sua idea secondo la quale il linguaggio della speranza, della fame, della fortuna sia comune a ogni
essere umano e nessun dialetto e nessuna lingua potrebbero in tal senso porre barriere; dall’altro leggere questo romanzo è, in qualche modo, leggere
due storie, diverse ma connesse. Non dico che questo aspetto non possa piacere, tuttavia è bene che il lettore sappia in cosa sta investendo il proprio tempo.
Su un aspetto, invece, non possono non prendere
posizione: i refusi non sono molti però sono ricorrenti, nel senso che di
virgole fra soggetto e predicato («le donne, arrivate quella mattina presto
facevano da mangiare», p. 145) è pieno il libro... senza contare uno strafalcione
che, mi si dirà, può capitare. Però appunto è capitato: «V’applicai c’ho che
imparavo a lezione» (p. 68).
David Valentini