di Gustavo Zagrebelsky
Il Mulino, maggio 2019
pp. 154
€ 14 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
La nostra contemporaneità tollera a stento i maestri, il più delle volte li emargina e li denigra: ma chi sono esattamente i maestri? Nel suo nuovo saggio, uscito da poco per Il Mulino, Gustavo Zagrebelsky disegna un identikit molto interessante, a partire dalla etimologia del "magister", che vorrebbe designare qualcuno che ne sa "di più". Con ciò, il maestro non guarda dall'alto gli allievi, ma è mosso da una sempre vigile voglia di imparare: lungo il difficile percorso in salita della conoscenza, precede provvisoriamente i discepoli, ben sapendo che un giorno loro potranno superarlo o cambiare strada, trovandone una più congeniale. Dunque, in una visione socratica dell'insegnamento, l'alunno non è un vaso da riempire; piuttosto, va svegliata in lui la sete di conoscenza. Questo segna la differenza tra la concezione della cultura come un'istruzione da impartire o come un'educazione da inculcare, per quanto nella pratica il discrimine sia molto più sottile, e gli esempi non manchino. In ogni caso, a uno spirito dogmatico è sempre preferibile uno spirito critico, in cui ricorra il dubbio: questo è da intendersi come dubbio euristico, «un omaggio alla verità» (p. 63) nell'esercizio del pensiero, non come uno scetticismo paralizzante; al contrario, è ciò che muove la ricerca del sapere.
Proseguendo nella descrizione del maestro, questo deve essere quantitativamente sempre più preparato, ma il suo vero compito - nonché arte - è quello di decidere cosa dire e cosa omettere, perché la selezione dei contenuti è premessa indispensabile e un eccessivo sfoggio di erudizione bloccherebbe la comunicazione con l'allievo.
Tra le principali responsabilità del maestro, ce ne sono tre, tutte molto delicate e tra loro concatenate: far conoscere (dando prova di padronanza della materia, mai paga in un insegnante vero); far comprendere, che è invece un esercizio di libertà, che deriva dall'intuizione del singolo «cioè dalla capacità, per così dire, non di guardare le cose, ma di guardare dentro le cose» (p. 87); far giudicare, ovvero inserire ciò che è stato compreso in una sfera di valori, «che si distinguono dai fatti e dalla loro visione comprensiva, ma che da essi sono messi in moto» (p. 90). Insomma, per dirla con Zagrebelsky, «i fatti sono segni che ci parlano» (p. 87), se ognuno resta all'erta e disponibile a cambiare le proprie convinzioni, se nuovi fatti dovessero sopraggiungere:
La libertà morale presuppone l'umiltà di fronte alla verità; presuppone che non ci si ritenga mai definitivamente depositari di una ragione assoluta di comprensione. (p. 83)
La terza sezione dell'opera è dedicata al rapporto tra maestro e discepoli e su tutte giganteggia la parola autorità: sono gli allievi a confermare l'autorità del maestro, dal momento che non basta l'istituzione con qualche concorso per legittimare ciò che avviene in classe. Il rischio, semmai, è quello di alimentare il proprio egocentrismo e l'eccentricità davanti agli allievi; e, viceversa, nel patto di fiducia col docente, se il rapporto si consuma, gli allievi potrebbero sentirsi traditi:
Il desiderio del maestro di piacere al discepolo con la sua personalità può portare allo schiacciamento della personalità di quest'ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al cuore del maestro e di compiacerlo a tutti i costi, può finire per distruggerlo trasformandolo in piaggiatore. In entrambi i casi saremmo di fronte a "sformazioni". (p. 124)
Insomma, il rapporto di confidenza e intimità tra maestro e discepolo è un gioco di equilibri delicatissimi, dal momento che «ognuno ha da imparare dall'altro, non solo nel pensiero ma anche nell'esperienza» (p. 125).
Quando si arriva alla quarta parte del libro, avendo ormai bene nella mente un ritratto convincente di maestro, ecco che lo sguardo di Zagrebelsky si sposta su questo presente, segnato dalla predominanza dei tecnici, volti alla conservazione di ciò che c'è; ai maestri - rivoluzionari in cui, lo vediamo bene nel libro, domina la pars construens - spetta invece ben poco:
La riflessione, che è l'ingrediente di ogni magistero, è erosa da uno stile di vita in cui il silenzio, propedeutico a ogni atteggiamento riflessivo, è proscritto. La costruzione di rapporti profondi e duraturi sembra sempre più difficile. Per i più, i maestri sono sostituiti dagli idoli e questi idoli devono essere banali [...]. La democrazia dei grandi numeri ha bisogno non di maestri ma di persuasori, non di guide dello spirito ma di "tutors" per il successo, non di inquietudini ma di torpore, non di dubbi che aprono gli occhi sul presente e sul futuro ma di pregiudizi che li chiudono. (pp. 139-140)
L'imperativo che Zagrebelsky ci propone per cercare di cambiare le cose è mettersi in discussione, senza accettare passivamente ciò che ci viene proposto. In tutto il saggio, che nell'ultima parte assume le caratteristiche critiche e persuasive del pamphlet, dubbio, spirito critico e discussione sono parole che ricorrono, a conferma di come niente sia prescritto né proscritto. Il nostro esercizio della libertà consiste anche in questo: leggere un'opera come Mai più senza maestri e lasciare che le pagine, con la loro chiarezza e la loro profondità, continuino a dialogare con noi anche dopo, mentre ci guardiamo attorno e pensiamo che questo presente - così passivo perché trafelato e poco abituato a pensare - non può bastarci.
GMGhioni
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