di Philip Roth
Einaudi, 2014
Traduzione di V. Mantovani
pp. 203
€ 11,30 (cartaceo, ET)
€ 7,99 (ebook)
«Con le autobiografie, c'è sempre un altro testo, un controtesto, se vuoi, di quello presentato. È probabilmente la più manipolabile di tutte le forme letterarie» (p. 179)
Strutturata come una lunga lettera a Zuckerman, uno dei celebri personaggi delle prime opere di Philip Roth, I fatti si presenta fin dall'inizio come un'autobiografia paradossale, che ha i tratti di una narrazione chiusa nella pretesa veridicità biografica. Tuttavia, Roth ha, fin dall'inizio, piena consapevolezza di essere alle prese con un libro diverso dal solito, che certamente non cerca l'apologia né l'autoglorificazione; semmai è possibile ravvisarvi il desiderio di fare il punto sulla propria vita («la persona alla quale intendevo rendermi visibile in queste pagine ero, in primo luogo, io stesso», p. 4).
D'altro canto, Roth sa che la mistificazione è dietro l'angolo; ciononostante il testo sembra poi piegarsi alla tradizione, ripercorrendo cronologicamente - a parte qualche licenza di prolessi e analessi qui e là - la vita del grande scrittore americano. Non possono mancare i rapporti familiari, col padre che lavora come assicuratore dopo un investimento errato, e tuttavia fa di tutto perché Philip possa seguire le sue aspirazioni, andando all'università. Roth, d'altra parte, si immaginava nei primi anni come un futuro professore universitario, non certo come uno scrittore; la possibilità di dedicarsi al campo creativo, semmai, viene dall'esempio del fratello Sandy, che è già diventato un artista:
«La tenacia del suo esempio fissò nella mia mente il concetto che il figlio di un assicuratore aveva il diritto - se possedeva il talento e l'industriosità - di aspirare a qualcosa di diverso da una tradizionale carriera negli affari o nelle professioni. (p. 102)
E così seguiamo Philip Roth attraverso i suoi primi racconti pubblicati, tra vari lavori per sbarcare il lunario e periodi di difficoltà economiche. Non mancano gli amori, tra cui il rapporto con Josie, che per farsi sposare inventa di essere incinta: una bugia gravissima, pensa l'uomo Roth; una trovata geniale, pensa il narratore Roth. E questo lo tiene avvinto alla donna in un rapporto pieno di litigi e instabilità, destinato a terminare, certo, ma non senza lasciare strascichi pesanti, sia a livello emotivo sia finanziario. L'esperienza con Josie scava un solco profondo anche nei rapporti successivi di Philip, che tuttavia non smette di esplorare l'universo femminile con curiosità, però senza mai dimostrare costanza o desiderio di costruirsi una famiglia. Anche quando si illude di aver trovato la donna con cui trascorrere gli anni successivi, interviene presto un cambiamento che instilla un dubbio o, peggio, una certezza.
In ogni caso, i lettori affezionati all'opera di Roth leggeranno I fatti soprattutto per quel sottotitolo di autobiografia di un romanziere: e in effetti l'autore ripercorre in modo dettagliato il suo affacciarsi al mondo della narrativa, le frizioni con il mondo ebraico per i primi scritti, fino all'esordio con Goodbye, Columbus e al successo del Lamento di Portnoy. Ecco che qui scopriamo tante tessere autobiografiche che sono scivolate, con varianti, nei romanzi. Soprattutto La mia vita di uomo e Quando Lucy era buona ospitano molti rimandi alla biografia, a cominciare da esperienze con Josie che vengono traslitterate in narrazione.
Le ultime trenta pagine sono però occupate dalla risposta di Zuckerman a Roth: è lui, da protagonista di tante sue opere, ad affilare la penna e a puntarla contro il suo creatore, per accusarlo di non essere quasi riconoscibile, dal momento che la dimensione narrativa è quella a lui più consona, in cui può maggiormente mettere in luce il proprio talento. Al contrario, questa autobiografia è qualcosa di cui Roth non dovrebbe andare fiero, e Zuckerman ripercorre minuziosamente e spietatamente passi ed episodi narrati in precedenza, per sottolineare come la realtà possa diventare un'altra, se solo si cambia il punto di vista. Josie, ad esempio, forse non ha deliberatamente ingannato Philip; probabilmente era solo un'alcolista che si è autoconvinta di tante cose; piuttosto, è stato Roth a non rendersi conto della gravità delle sue condizioni. Insomma, Zuckerman non fa che dimostrare ciò che Roth ha sostenuto in apertura, ovvero che «i ricordi del passato non sono ricordi di fatti, ma ricordi di come tu li immagini» (p. 8). E proprio per questo il suo personaggio, proiezione dichiaratamente autobiografica, impersona l'autocritica per eccellenza: «Il tuo strumento per scandagliare spietatamente dentro di te, lo strumento per confrontarti sinceramente con te stesso, sono io» (p. 192).
I fatti, per quanto piacevole, è certamente consigliabile a chi legge da tempo Philip Roth: come per il volume Perché scrivere, solo chi conosce la produzione dello scrittore americano apprezzerà fino a fondo l'opera e si godrà la sua complessa giocosità.
GMGhioni