di Peter Godfrey-Smith
Adelphi, 2019
Titolo originale: Other Minds. The Octopus, the Sea, and the Deep Origins of Consciousness
Titolo originale: Other Minds. The Octopus, the Sea, and the Deep Origins of Consciousness
Traduzione di Isabella C. Blum
pp. 303
€ 22,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
€ 12,99 (ebook)
Cose che mi è sempre piaciuto leggere: narrativa italiana e straniera; poesia; saggi su storia (del Risorgimento e contemporanea in particolare), microstoria, arte, antropologia, linguistica, critica letteraria. Cosa non ho mai pensato mi potesse interessare: scienza, biologia, etologia animale.
Per questo l’incontro con la collana Animalia di Adelphi è stato folgorante e del tutto imprevisto: con Al di là delle parole, straordinario scritto di Carl Safina (qui la recensione), mi si è spalancato davanti un universo di senso, una realtà avvincente che parla direttamente al nostro presente, ma da una prospettiva altra, da un punto di vista inusuale. Per capire se il mio colpo di fulmine potesse evolvere in una vera storia d’amore, ho voluto proseguire il mio esperimento con il secondo volume della serie, Altre menti, che parte da uno studio puntuale e approfondito della classe dei cefalopodi (cui appartengono polpi, seppie e calamari) per porsi domande più profonde circa l’origine della coscienza.
Noi siamo infatti abituati a considerare “intelligenti” diversi animali che in qualche modo sentiamo vicini a noi: mammiferi, come scimpanzé, cani e gatti; studi recenti permettono di inserire nel gruppo anche alcuni uccelli, come corvi e pappagalli, che pure rientrano nella macrocategoria dei vertebrati a cui appartiene anche l’essere umano. Come possiamo spiegare allora l’intelligenza dei polpi, che si sono evoluti lungo una linea completamente diversa da quella degli uomini?
Ripercorrendo a ritroso l’albero della vita, una metafora efficace, seppur semplificativa, per descrivere i rapporti tra le specie a partire dall’inizio dell’evoluzione (Godfrey-Smith si concentra sulla storia degli animali), si scopre che l’ultimo antenato comune tra vertebrati e molluschi (di cui fanno parte anche i cefalopodi) si può rintracciare circa 600 milioni di anni fa: si trattava probabilmente di un piccolo verme piatto, lungo circa un millimetro, dotato di occhi semplici e un primo abbozzo di sistema nervoso. Da quel momento, si sarebbe creata una divisione netta tra due diverse linee di sviluppo. Ecco perché risulta straordinariamente affascinante osservare la complessità biologica e comportamentale dei polpi:
Ripercorrendo a ritroso l’albero della vita, una metafora efficace, seppur semplificativa, per descrivere i rapporti tra le specie a partire dall’inizio dell’evoluzione (Godfrey-Smith si concentra sulla storia degli animali), si scopre che l’ultimo antenato comune tra vertebrati e molluschi (di cui fanno parte anche i cefalopodi) si può rintracciare circa 600 milioni di anni fa: si trattava probabilmente di un piccolo verme piatto, lungo circa un millimetro, dotato di occhi semplici e un primo abbozzo di sistema nervoso. Da quel momento, si sarebbe creata una divisione netta tra due diverse linee di sviluppo. Ecco perché risulta straordinariamente affascinante osservare la complessità biologica e comportamentale dei polpi:
[i cefalopodi] sono un sottogruppo dei molluschi, e perciò sono imparentati con vongole e chiocciole; nondimeno, hanno evoluto grandi sistemi nervosi e la capacità di comportarsi in modo diverso dagli altri invertebrati. E lo hanno fatto percorrendo una via evolutiva completamente distinta dalla nostra. I cefalopodi sono un’isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati. Poiché il nostro antenato comune era una creatura semplicissima ed è tanto lontano nel tempo, i cefalopodi rappresentano un esperimento indipendente nell’evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. Se è possibile stabilire con loro un contatto come esseri senzienti, non è per via di una storia condivisa, non è per via di un’affinità – ma perché nel corso dell’evoluzione la mente si sviluppò due volte. È probabile che questo sia quanto di più vicino all’incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. (p. 20-21)
L’approccio dell’autore all’argomento, vastissimo e pieno di nodi irrisolti (e forse irrisolvibili), è quello del filosofo, e questo si vede a tratti nello sviluppo del discorso, che tende ad aprire ampie parentesi, prima di ritornare al filo centrale. Tuttavia, lo scritto si propone di assecondare un ragionamento schematico e progressivo, arricchito da numerosi esempi e da momenti di sintesi che, alla fine di ogni snodo del discorso, aiutano a chiarire a che punto ci si trovi e in quale direzione si stia andando. Quello che chiede lo studioso al suo pubblico è un atto di fiducia: ogni elemento a cui fa cenno verrà ripreso e ampliato, spiegato e giustificato, trovando così una sua collocazione nel mosaico complessivo. L’errore da non fare mai è quello – rispetto al quale metteva in guardia anche Safina – di applicare alle ricerche sui cefalopodi i pregiudizi legati al nostro essere umani: per comprendere un’alterità radicale, bisogna adottare altri metodi, altre forme di ragionamento. Menti diverse richiedono diversi metodi d’indagine (e in nessun modo il cervello dei cefalopodi può essere confrontato direttamente con quello di un vertebrato). Anche in ambito sperimentale, gli studi sui polpi – molto meno frequenti sono quelli su seppie e calamari – hanno prodotto risultati curiosi e difficili da interpretare, perché per molto tempo ci si è sforzati di comparare in modo diretto la mente del polpo con quello dei mammiferi già testati in laboratorio. A livello generale, i polpi rispondevano bene ai test, ma frequenti erano i casi di esemplari che violavano tutte le aspettative, assumendo atteggiamenti imprevedibili e apparentemente illogici: perché uno dei soggetti esaminati avrebbe dovuto spruzzare d’acqua i ricercatori, o cercare di manomettere gli oggetti coinvolti nell’esperimento, piuttosto che tirare la leva che avrebbe rilasciato pezzetti di cibo? Forse semplicemente per interesse, curiosità, volontà. Non ha senso misurare le capacità d’apprendimento del polpo basandosi sui medesimi test in cui ratti o piccioni hanno dato esiti differenti, perché diversa è la loro struttura mentale. Il parziale insuccesso degli esperimenti sull’apprendimento non mina altresì le certezze che si hanno sull’intelligenza dei cefalopodi: è dimostrata, per esempio, nei polpi una piena consapevolezza circa un eventuale stato di cattività (che i pesci, per dire, non colgono) e una grande capacità di adattamento opportunistico all’ambiente.
Nel passare in rassegna l’articolato stato degli studi sul tema, Godfrey-Smith rifiuta di assumere qualsiasi teoria come assoluta: non esiste una sola riflessione, né una soluzione che sia davvero definitiva, e l’autore propone le molteplici idee mantenendosi aperto a ogni possibilità. Nel far questo, si muove lungo due direttrici: una che guarda al passato, all’origine della vita, per studiare la nascita e l’evoluzione del sistema nervoso, dell’esperienza soggettiva come base per la coscienza (nell’umano come nelle specie animali); per trovare giustificazione dell’esistenza insolitamente breve di polpi e seppie (limitata, pur in presenza di un cervello così grande ed evoluto, a uno o due anni); per motivare su basi evoluzionistiche lo straordinario arazzo cromatico di cui alcune specie possono disporre. L’altra linea del discorso si incentra invece sul presente, descrivendo le particolarità delle specie (con particolare attenzione per le seppie e i polpi); portando all’attenzione del pubblico gli esiti delle ricerche laboratoriali, ma anche delle sue osservazioni; narrando gli incontri più significativi con i cefalopodi nelle acque australiane; soffermandosi sul caso inconsueto di Octopolis, un luogo insolito in cui, sfidando la consueta natura solitaria, numerosi polipi hanno instaurato delle complesse dinamiche sociali. Alcuni degli aneddoti riportati avvincono il lettore, ma non vengono commentati o spiegati dall’autore: la loro funzione è quindi più suggestiva che argomentativa, volta a ricordare quanto ancora non si sa su creature che permangono per molti versi misteriose.
Il saggio, che ha l’indubbio merito di rendere questioni scientifiche estremamente complicate accessibili anche ai profani, si conclude con un appello diretto alla coscienza: la vita nasce nel mare, “la mente evolse in mare” (p. 239) e l’esistenza delle creature resta indissolubilmente legata all’acqua. Ecco perché dovremmo prenderci cura degli oceani, in quanto “comune origine di tutti noi” (p. 241): proprio perché le mutazioni legate ai nostri comportamenti poco responsabili – o a politiche incaute – non sono nel caso degli oceani immediatamente visibili, e perché la loro capacità di “assorbire lo stress” inflitto dall’uomo è molto alta, quello dei mari pare non essere il problema ambientale più urgente. È allora necessario assumere una nuova prospettiva, tutelare questa enorme “sfera di creatività biologica”, per evitare che la culla della vita diventi presto – come sta già accadendo in molte aree del mondo – “zona morta”.
Carolina Pernigo