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“Cacciateli!” Quando i migranti eravamo noi, di Concetto Vecchio

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Cacciateli! 
Quando i migranti eravamo noi
di Concetto Vecchio
Feltrinelli, 2019

pp. 192
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)




«Mi colpisce la regolarità della Storia, la circolarità delle cose, il fatto che tutto torni prima o poi, o si riproponga, con altre facce, ma con i medesimi destini». 
Non c’è momento migliore per leggere Cacciateli! di Concetto Vecchio, perché è la testimonianza di come certe dinamiche sociali e politiche si ripropongano in modo diverso, seppur con lo stesso esito. E mentre il nostro presente è intriso di storie di migranti che fuggono dal proprio paese, scontrandosi spesso con la xenofobia e con trincee per fini propagandistici, il libro racconta di quando eravamo noi a cercare fortuna in altri paesi e subivamo ostilità, discriminazione e condizioni lavorative improponibili. «Dal 1946 al 1968 espatriarono in Svizzera due milioni di italiani» (pag. 29) scrive l’autore, che analizza cause e conseguenze di numeri così importanti, descrivendo con grande accuratezza il contesto sociale, economico e politico dell’epoca insieme ai risvolti umani, e quella circolarità delle cose all’origine delle riflessioni dell’autore. 
Anzitutto la disoccupazione. Subito dopo la Seconda guerra mondiale la situazione italiana mostrava un tale dislivello tra la domanda di lavoro e l’offerta di manodopera che persino alcuni politici esortavano gli italiani a espatriare; le condizioni dei lavoratori italiani in Svizzera non prevedevano che paghe esigue e dormitori affollati: infatti non ci si poteva trasferire con la famiglia, in un primo momento; questi presupposti furono ripensati solo nel 1964, quando un accordo tra i governi dei due paesi aprì le porte alla parità dei diritti tra lavoratori italiani e svizzeri, all’indennità di disoccupazione, alla possibilità di poter prendere la residenza dopo 5 anni di lavoro continuativo e, non ultimo, si ridusse da 3 anni a diciotto mesi il tempo di attesa per il ricongiungimento con le famiglie. 

Una delle peculiarità del libro consiste nella completa partecipazione dell’autore, per due motivi: il primo riguarda la narrazione in prima persona; in Cacciateli! ritroviamo una modalità narrativa che l’autore ha già mostrato di padroneggiare, cioè un racconto nel quale trovano spazio fonti autorevoli, una ricostruzione chiara e rigorosa e la descrizione di vicende umane rievocate con grande empatia; il secondo motivo è direttamente connesso al primo, perché quando Vecchio parla della questione degli italiani in Svizzera, sta raccontando la storia della sua famiglia
Tra gli emigrati verso questo piccolo paese, dove la richiesta di manodopera era alle stelle, c’erano anche i suoi genitori, ed è questa la storia dalla quale l’autore prende le mosse; durante la lettura scorrono davanti agli occhi immagini dell’autore seduto vicino a loro, mentre fa qualcosa cui ormai, da giornalista affermato, è abituato da sempre: analizzare fatti e dati e porre delle domande. Stavolta però non si trova di fronte alle storie degli altri: indaga anche sulle proprie radici; questo incide non poco sulla natura del libro e sull’esperienza del lettore. 
Mentre approfondisce una parte importante delle vicende di famiglia, tanto da averne definito l’identità, rievoca un importante capitolo della storia del nostro paese, che sebbene sia stato dimenticato da molti può insegnare ancora tanto sul nostro presente; inoltre, questo racconto in prima persona mette in luce – oltre alla puntualità del resoconto e la piacevolezza della scrittura – una notevole vena narrativa. E così, mentre ci si gode il periodare equilibrato e appassionante, pensiamo di stare leggendo un bel saggio, un’inchiesta illuminante, un memoire e a tratti un intenso romanzo su vicende e personaggi dell’Italia del secolo scorso. 

Dall’osservazione di ciò che è talmente vicino che non sempre riusciamo facilmente a metterlo a fuoco, la storia della propria famiglia, Concetto Vecchio allarga lo sguardo alle storie degli altri. La più avvincente è quella di Gaspare Bono, che emigra dopo essere stato sindaco di un piccolo paese siciliano; in Svizzera passa da un lavoro all’altro, da una topaia all’altra per anni, senza poter avere pace, perché continua a leggere l’Unità senza preoccuparsi di nascondere la propria fede politica: per questo viene cacciato da poveri alloggi, scantinati terribili, il più delle volte. Scrive al giornale raccontando la sua storia e interviene il governo italiano, persino Togliatti viene informato del modo persecutorio con cui viene trattato per il fatto di essere comunista

D’altra parte l’autore fornisce un altro ritratto accurato, quello di James Schwarzenbach, un aristocratico di grande cultura che nel ’67 decide di candidarsi alle politiche con la Nationale Aktion: «coglie un umore, un risentimento e lo sfrutta, lo amplifica. Dà rappresentanza politica a strati senza voce. Mette giacca e cravatta al loro malcontento. Gli episodi di razzismo s’infittiscono» (pag. 139). Pagina dopo pagina Vecchio tratteggia il crescendo: il malcontento nei confronti degli italiani era una realtà e venne alimentata a dovere, generando intolleranza e gravi episodi di odio razziale come l’omicidio di Adamo Franchina, Attilio Tonola e Alfredo Zardini. 
«Noi salutiamo gli sforzi di un’Europa unita, a patto che questa non si limiti a trasformare gli Stati europei in meri centri di amministrazione di un organismo centralizzato. Ogni nazione ha invece il diritto di decidere il proprio destino e il proprio futuro», p. 150), disse Schwarzenbach, questo sconosciuto che in poco tempo divenne il fulcro di una battaglia xenofoba. 
E poi: 
«Ho sempre avuto simpatia per il dittatore Franco, perché il grande pericolo è dato dai comunisti. Mi chiedete se sono di destra? Certo non sono di sinistra (risate in sala), ma penso che i concetti di destra e di sinistra oggi abbiano poca importanza. Quello che conta è il volere del popolo, che nessuno ascolta più veramente». (p. 52) 
Simpatia per un dittatore, demonizzazione dei comunisti, post ideologia ante litteram e populismo fanno capolino nel suo primo intervento in pubblico; e in quelli successivi fece sfoggio di tendenze che oggi definiremmo sovraniste. 

Ma quali erano i presupposti per l’ascesa di Schwarzenbach al motto «prima gli svizzeri»? La straordinaria ondata migratoria disorientò gli abitanti di questa piccola nazione che l’autore descrive con efficacia enumerando poche caratteristiche: disoccupazione pari a zero, democrazia diretta (sebbene le donne non avessero ancora diritto al voto), tre ceppi linguistici e due fedi religiose in territori poco estesi, dove l’efficienza delle amministrazioni locali veniva avvertita come basilare; la paura di perdere quel delicato equilibrio generò un diffuso malcontento, che venne opportunamente sostenuto e incrementato da Albert Stocker, fondatore di un partito di destra, che tacciava gli italiani che emigravano nel suo paese di essere «solo dei rifiuti» e l’Italia di essere «moralmente una fogna!» (p. 64).

L’autore compone un mosaico che fornisce al lettore un’idea chiara di un periodo complesso, senza tralasciare le pagine del grande giornalismo dell’epoca, un’analisi socio-culturale del comportamento degli italiani in Svizzera, fino ai fenomeni di costume; e confida le riflessioni dei propri genitori, nelle quali prevale la gratitudine per un paese che, dopo aver arginato la xenofobia, ha permesso loro di emanciparsi e costruire il proprio futuro.

Lorena Bruno