di Antonio G. Bortoluzzi
Marsilio, 2019
pp. 214
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
"Vale, te l'immagini alzarti la mattina presto e fare la polenta da boscaioli invece che timbrare quel maledetto cartellino?" (p. 153)
Valentino e Massimo,
amici da una vita, condividono anche le ore di lavoro: sono entrambi addetti
alla manutenzione alla Filati Dolomiti, una delle tante fabbriche che
costellano di capannoni la pianura veneta, dove le montagne sono soltanto un
ricordo d'infanzia e un filo all'orizzonte. Dove le fabbriche di cemento o in
prefabbricato illuminano, con le loro insegne al neon, le strade statali e
provinciali e sanno di fatica, di sudore, di turni. Tanto scombinanti che non
sai mai se è l'ora della brioche per colazione o della bistecca per cena.
Vale, separato, vive
con Gea, cagnolina affettuosa in perenne attesa, Massimo, donnaiolo
impenitente, è solo. Insieme hanno la passione del camminare tra i boschi,
specialmente per arrivare a un certo agriturismo, Monteparadiso, dove si
attavolano davanti a piatti epici. Monteparadiso rappresenta per loro la fuga,
la lontananza dalla fabbrica succhiatempo e succhiasangue, il ritorno alla
natura. Quando scoprono che il vecchio oste è stanco di mandare avanti la
baracca e cerca compratori, Vale e Massimo si lasciano conquistare dal sogno di
rilevare l'agriturismo per tornare a dar vita a quei gesti che non esistono
più: mungere una mucca, coltivare l'orto, rimestare la polenta nel paiolo.
Gesti che sono legati al loro mondo infantile, quando da bambini, abitavano in
montagna, là dove ogni azione aveva un valore, una conseguenza concreta.
Non come quei gesti alienanti della fabbrica, sempre uguali a se stessi, apparentemente senza scopo perché prodromi o successori di altri gesti, compiuti da altri operai. Bello a dirsi, ma ci vogliono soldi, tanti soldi. E ci vorrebbe un metodo facile e veloce per procurarseli. Caso vuole che vicino alla Filati Dolomiti da poco si sia insediata una nuova azienda, la "Ora Oro", che traffica anche in preziosi antichi, sottratti a quei poveracci che, con l'acqua alla gola, non possono fare altro che vendere l'oro di famiglia. Un cunicolo unisce le due fabbriche, la fognatura. E a Massimo viene un'idea per procurarsi "il vil danaro"…
Non come quei gesti alienanti della fabbrica, sempre uguali a se stessi, apparentemente senza scopo perché prodromi o successori di altri gesti, compiuti da altri operai. Bello a dirsi, ma ci vogliono soldi, tanti soldi. E ci vorrebbe un metodo facile e veloce per procurarseli. Caso vuole che vicino alla Filati Dolomiti da poco si sia insediata una nuova azienda, la "Ora Oro", che traffica anche in preziosi antichi, sottratti a quei poveracci che, con l'acqua alla gola, non possono fare altro che vendere l'oro di famiglia. Un cunicolo unisce le due fabbriche, la fognatura. E a Massimo viene un'idea per procurarsi "il vil danaro"…
Leggendo il romanzo
di Antonio G. Bortoluzzi, "Come si fanno le cose", edito da Marsilio,
si fa un tuffo nella letteratura operaia, quella che ha visto, nel corso del
Novecento, cantori quali Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise, Elio
Vittorini, Nanni Balestrini, Luciano Bianciardi e Italo Calvino. E ancora Gadda
e Caproni. Fino ad arrivare a Ermanno Rea, a Mario Desiati e a Cosimo
Argentina. Perché la fabbrica con i suoi capireparto, gli operai, i timbri, i
cartellini, le catene di montaggio, le linee, i sindacati, le sirene, i turni,
i cancelli, gli scioperi è stata il volto del secolo scorso e ha sempre dato
materia di scrittura a chi aveva a cuore la rappresentazione della società. Un
volto che, in questo romanzo, mostra tutte le sue rughe. Perché il Duemila non
è più il tempo della fabbrica. Bortoluzzi torna a raccontare un rapporto, quello tra lavoratore e fabbrica,
dispiegato nel suo ossimoro di amore/odio, fabbrica materna, datrice di vita, ma
fabbrica matrigna, foriera di malattie e di morte. Il solito, eterno dilemma
tra lavoro e salute.
"Alla tivù c'è il dibattito sui migranti. Navi, porti, quote, distribuzioni, polizia. Vedere che ci sono uomini, donne, bambini e vecchi che vogliono entrare nel nostro mondo di fabbriche, supermercati, uffici, traffico e viadotti che crollano mi fa schifo. Cioè, io mi faccio schifo. Perché ne voglio uscire". (p. 128)
Nel libro di
Bortoluzzi siamo alla fine di questo percorso novecentesco, siamo negli anni
nostri, gli anni in cui la crisi ha morso anche le piane del Nordest che
sembravano un unico pulsare di capannoni e di lavoro. La crisi, che si vede
concretamente in tutte le nuove figure di lavoratori, dal nuovo assunto a
tutele crescenti allo stagista, da quello in mobilità a quella a cui manca poco
per lo scivolo alla pensione, diventa economica, ma anche morale, come perdita
di valori, di punti di riferimento. Non è un caso che uno dei due protagonisti,
Valentino, quello dei due a cui sono affidati i flashback, cerchi
ossessivamente un'ancora nel passato, nella sua infanzia in montagna. Un mondo
che non esiste più, caratterizzato dal vivere assieme, in comunità, vissuto da personaggi
cementati dall'aiuto reciproco, conosciuti da tutti e legati l'uno all'altro.
Il mondo della fabbrica ha invece creato una serie infinita di monadi, persone
che lavorano assieme per otto ore, ma che, fuori, non si cercano e non si
frequentano.
Se Valentino è
nostalgico ma, tutto sommato, rassegnato, la parte del ribelle spetta a Massimo
che non ne può più di farsi mangiare il tempo dal lavoro, che desidera una vita
più giusta, che rivendica il suo diritto di inseguire un sogno, lontano dallo
sfruttamento. Anche a costo di deviare dai binari dell'onestà e di progettare
una rapina che, trasformandolo in ladro, lo tramuterà anche in uomo libero. E
non importa che, per arrivare al sogno, si debba passare, letteralmente,
attraverso metri cubi di "merda"… questo è il contrappasso perché il
sogno, se di tale si tratta, non è lì a portata di mano, bisogna sporcarsi per
raggiungerlo. Ma ne vale la pena… Soprattutto perché la fabbrica, da modello
più avanzato di lavoro, da strumento di progresso, da volano per il futuro si
sta trasformando in un ferrovecchio, soppiantato dai nuovi modelli di
produzione, dal virtuale e dai prodotti cinesi che costano poco e vengono
confezionati in quattro e quattr'otto.
Massimo, paladino
del cambiamento, ne è ciecamente convinto e, per un po', riesce a tirare dalla
sua anche Valentino. Finché, ironia della sorte, non sarà proprio qualcuno che
appartiene al nemico, che viene dalla Cina, a risvegliare in Vale l'antica concretezza dei gesti
grazie a un amore che ha la semplicità delle cose di un tempo. Proprio la forza
di questo amore delicato diventa dirompente a tal punto da reindirizzare
Valentino verso il polo positivo della vita.
E mentre tutto il
romanzo è giocato sul tempo dell'attesa del momento giusto per mettere in atto
la rapina, sulla preparazione per passare dalla potenza all'atto, dal sogno
alla realtà, il finale arriva dritto come un treno.
Bortoluzzi, forte
del suo vissuto (36 anni in fabbrica da operaio), con la sua scrittura
concreta, senza fronzoli, solida e duratura dà voce a un mondo che non esiste
più, se non nei ricordi, quello dei piccoli paesi montani un tempo ricchi di
voci, di rumori e di umanità, e, contemporaneamente, dà conto di un presente
disilluso, amaro e duro, ma che trova nel sogno la sua possibilità, teorica, di
riscatto. Perché
"Forse ciò che conta di più è il modo in cui si lavora, come si fanno le cose, non tanto quello che si fa". (p. 72)
Rosatea Poli
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