di Mario Soldati
Bompiani, 2017
1^ edizione: 1970
pp. 238
€ 11 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
«Ascoltando Enzo, istintivamente, mi sostituivo a lui. Non sono neanche sicuro, scrivendo, oggi, a distanza dagli avvenimenti, due anni e più dopo la sua morte, di non trasformarlo un po' in me stesso: di non imprestargli, senza volerlo, la mia voce, il mio modo di pensare e di parlare. L'inconveniente accade, fatalmente, a chi scrive, con ogni personaggio. Ma è questione di misura: con qualcuno accade di meno, e con qualcuno di più» (p. 185)
L'attore, romanzo che valse a Mario Soldati il Campiello del 1970, si apre a Linate, con l'io-narrante in attesa del suo volo per Roma. Come spesso accade, gli occhi corrono sulle persone altrettanto affannate o annoiate dall'attesa, e tra gli altri lo sguardo cade su una figura nota, con quella sua ben riconoscibile «camminata dell'uomo vanesio e pieno di zuppa: dell'uomo che si crede intelligente, affascinante, importante» (p. 173). Ci vuole qualche momento prima che il narratore riconosca in lui Enzo Melchiorri, caratterista che era stato un tempo famoso e ora quasi dimenticato, nonostante il suo talento. Nel rivedersi, scatta il classico elemento-nostalgia, seguito però da una richiesta: Enzo è in serie difficoltà economiche, a causa del vizio della moglie di giocare continuamente al casinò, e chiede al narratore un aiuto. L'idea è semplice: il narratore, noto regista in viaggio di lavoro a Roma, proverà a raccomandare Enzo in nome delle loro vecchie collaborazioni e di un'amicizia congelata dagli impegni ma non certo intaccata dal tempo. Sarà che il narratore - lo scopriremo via via - si immedesimerà spesso nella vita dell'amico, con cui condivide ben più di un tratto caratteriale.
Fissato l'appuntamento per aggiornare Enzo, il romanzo vira verso un brillante passo meta-cinematografico: Mario Soldati mette in bocca al suo narratore tutta la sua esperienza da regista, sceneggiatore e autore televisivo, e coglie l'occasione per muovere non poche critiche. La Mostra del cinema di Cannes, ad esempio, viene guardata oltre il suo aspetto patinato:«[...] gli altri sapevano benissimo che cosa era il Festival, e lo amavano appunto per ciò che era: per il suo frivolo inferno, per la sua brutalità mercantile tutta pavesata d'arte, di erotismo, di avventura, di mondanità: per le sue menzogne e i suoi egoismi, saldi e tetragoni a qualunque scalfittura di sincerità e generosità» (pp. 75-76)
Queste parti meta-cinematografiche, apparentemente tangenziali alla vicenda personale e di certo rallentanti, hanno però la capacità di farci capire in quale ambiente senza scrupoli ed estremamente mutevole si trovano a muoversi i personaggi: un ambiente che recita, tanto quanto gli attori, e cambia maschera alla prima necessità. Tuttavia, il narratore fa il possibile per riportare Enzo in scena, con uno di quei personaggi cinici e ironici che gli sono sempre stati congeniali. Ma c'è qualcosa di strano: l'amico si rende quasi introvabile, e per questo un giorno il narratore si reca nella sua villa a Bordighera per comunicagli di persona la proposta di un ruolo: lì non trova Enzo, ma la moglie Licia, che non perde tempo a raccontare di come la quiete familiare sia stata turbata dall'arrivo della nuova cameriera, Giovanna. Già in passato Enzo si era incapricciato della servitù, ma allora la bella Gabriella aveva mostrato poco entusiasmo davanti alle moine del padrone; ora con Giovanna era strano, perché la ragazza era imperiosa e inafferrabile. Il narratore deve ammettere che la cameriera còrsa ha una sua bellezza provinciale, con quelle unghie lunghissime che vorrebbero scimmiottare l'eleganza delle signore. E subito si accorge di aver già visto quella ragazza, al casinò, poco tempo prima, insieme a un altro esponente del mondo del cinema. Ma tace, perché subito capisce che il triangolo tra Enzo, Licia e Giovanna è qualcosa di fortissimo e malato.
E in effetti, più avanti Enzo confesserà i suoi pensieri più ricorrenti:
«Licia, in quel momento, al Casinò, soffriva e godeva, viva a sua volta a modo suo. Mi faceva pena, eppure non esitavo a infliggerle quella tortura soltanto per potere desiderare di più Giovanna» (p. 203)
A muovere le due donne non c'è però la passione amorosa o il desiderio, ma il denaro: Licia stringe un rapporto di fiducia con Giovanna, perché la domestica le fa credito per giocare d'azzardo; Giovanna, tuttavia, riceve tali somme da Enzo, con la promessa di poter tenere per sé metà della cifra. Cosa ci guadagna Enzo, ormai ridotto a ipotecare la casa? La speranza che un giorno Giovanna gli si conceda, per quanto la domestica non faccia che negarsi e non voglia illudere Melchiorri. Davanti a lei, Enzo si fa arrendevole, soffre ogni volta che la donna resta a dormire fuori o che frequenta altri uomini, continua a sperare che non prenda il suo giorno libero per restare alla villa, e crede alle sue storie compassionevoli sulla sua vita precedente. E, d'altra parte, Enzo nel lungo monologo che occupa una buona parte del romanzo, confessa:
«La saggezza sarebbe di non lasciarsi mai travolgere dalle passioni, di non cedere mai alle tentazioni della follia: di ragionare, sempre. Ma sono veri uomini coloro che, sempre, ci riescono?» (p. 225)
Il rapporto con la moglie, d'altra parte, si regge su tanti non detti, su angherie quotidiane, sulla conoscenza dei reciproci vizi («Litigare, offendere, odiare una persona con la quale si vive può sempre essere una forma di amore: lasciarla, invece, è quasi un ucciderla in noi», p. 157). Ma come può finire una storia tanto pericolosa, che si regge su segreti esilissimi e facili da sorprendere? Mario Soldati, quando lascia che sia la narrazione a prendere il sopravvento, sa bene come portare in scena i sentimenti più riposti e scomodi dell'animo umano. E i suoi personaggi - tutt'altro che giovani e avvenenti, al tramonto di chi furono - sono maschere nude davanti alla crudeltà delle passioni e dei giochi di denaro e di potere.
GMGhioni
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