Neve, cane, piede
di Claudio Morandini
Exòrma Edizioni, 2015
pp. 144
€ 13,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Adelmo Farandola vive in montagna. Odia il contatto con gli altri esseri umani e confina i viaggi in paese a quelle volte in cui è costretto ad approvvigionarsi. Una, al massimo due nell’arco di trecentosessantacinque giorni di solitudine. Unica compagna del suo eremitaggio è la natura, declinata in tutte le sue splendide sfaccettature e che dà ad Adelmo il ritmo delle giornate. Fino a quando un cane randagio lo segue lungo un sentiero e non vuole lasciarlo per nessun motivo. Può tirargli cacci e sassi contro quanto vuole, Adelmo, ma quel cagnaccio è sempre lì, al suo fianco. Controvoglia lo ammette nel suo rifugio e divide con lui le provviste stipate nella stalla e la lotta al contatto umano, inclusa quella contro quel dannato guardacaccia che in estate viene a disturbarlo quotidianamente, chiedendogli conto e ragione della sua vita e dei suoi beni. Come si permette a invadere il suo territorio? Lì, fino a quelle cime lontane, il terreno e tutto ciò che gli cresce dentro è suo e può farne e disfarne ciò che vuole. Come comportarsi, però, di fronte a quel piede umano che l’ultima valanga ha portato giù fino a valle e che le prime temperature in risalita stanno svelando?
Claudio Morandini ci regala un ritratto umano singolare, omaggiando la letteratura di montagna (e che il panorama editoriale italiano sembra aver compreso poco dopo la pubblicazione di Neve, cane piede con Le otto montagne di Paolo Cognetti) e ispirandosi a un episodio di cui l’autore è stato protagonista, raccontato nella postfazione al breve romanzo. Un giorno, durante una passeggiata in alta quota, è stato improvvisamente preso a colpi di pigne e sassi da un vecchio anziano affiancato da un cane pulcioso. Chi era? Perché lo colpiva? Fino a che punto il suo comportamento poteva essere considerato normale e non sintomatico di un qualche problema mentale? Tutte domande a cui il romanzo non ha risposto; anzi, che ha ammantato di ulteriore mistero. Chissà come vive quell’uomo, con chi parla, cosa sogna. Adelmo Farandola è un bel soggetto, e le sue tragicomiche fattezze sfociano nel grottesco, suscitando in chi legge i sentimenti più disparati: il suo cuore è ormai pietrificato e la sua scortesia indispettisce e spaventa; la sua igiene che definire scarsa è un eufemismo, dato che non si lava da anni e quasi coltiva croste e sudore su ogni parte del corpo, fa ribrezzo; la sua solitudine e la sua pazzia commuovono, mentre si ha quasi un senso di straniamento e di compassione davanti alla sua incapacità nell’usare le parole quelle pochissime volte che gli è necessario: «A non parlare per tanto tempo fatica a far uscire le frasi, e ogni parola gli sembra difficile come uno scioglilingua».
Quella di Adelmo è una solitudine personale che si trasforma in una riflessione sul concetto di solitudine globale che ogni individuo prova in un qualunque momento della propria esistenza. In questo paesaggio che si espande pagina dopo pagina privo, quasi, di confini perché così lo vede il protagonista, Neve, cane, piede più che un romanzo è una fiaba moderna in cui conta solo lo sguardo di Adelmo che, come quello di tutti gli anacoreti vero o inventati, ci rivela il mondo nella sua natura di enigma senza risposta.
Il breve romanzo possiede una struttura tripartita, anticipata anche dal titolo, a cui corrisponde un’altrettanta divisione della qualità della scrittura: sognanti e poetiche le pagine dedicate alla neve (e per esteso alla natura tutta), surreali ma comunque incisive quelle con il quadrupede parlante come protagonista, meno riuscita la parte della storia in cui il piede inizia ad apparire. Non per questo il testo perde il suo equilibrio narrativo: il senso di spaesamento e distacco dalle cose, quasi che leggendo si rimanga ovattati nella stessa bambagia in cui Adelmo conduce le sue giornate, rimane coerente all’idea che alla fine della lettura si definisce con chiarezza. Non c’è un modo corretto o normale di vivere. C’è solo la vita.
Quella di Adelmo è una solitudine personale che si trasforma in una riflessione sul concetto di solitudine globale che ogni individuo prova in un qualunque momento della propria esistenza. In questo paesaggio che si espande pagina dopo pagina privo, quasi, di confini perché così lo vede il protagonista, Neve, cane, piede più che un romanzo è una fiaba moderna in cui conta solo lo sguardo di Adelmo che, come quello di tutti gli anacoreti vero o inventati, ci rivela il mondo nella sua natura di enigma senza risposta.
Il breve romanzo possiede una struttura tripartita, anticipata anche dal titolo, a cui corrisponde un’altrettanta divisione della qualità della scrittura: sognanti e poetiche le pagine dedicate alla neve (e per esteso alla natura tutta), surreali ma comunque incisive quelle con il quadrupede parlante come protagonista, meno riuscita la parte della storia in cui il piede inizia ad apparire. Non per questo il testo perde il suo equilibrio narrativo: il senso di spaesamento e distacco dalle cose, quasi che leggendo si rimanga ovattati nella stessa bambagia in cui Adelmo conduce le sue giornate, rimane coerente all’idea che alla fine della lettura si definisce con chiarezza. Non c’è un modo corretto o normale di vivere. C’è solo la vita.
Federica Privitera
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