Tre serbi, due musulmani, un lupo
di Luca Leone e Daniele Zanon
Infinito Edizioni, 2019
pp. 296
€ 15,00 (cartaceo)
€ 4,89 (ebook)
Non è semplice
raccontare di un conflitto come quello che ha insanguinato la ex Jugoslavia non
molti anni fa. Innanzitutto perché il tempo trascorso è ancora breve e le
ferite inferte non si sono ancora rimarginate. E poi perché si tratta di una
guerra che l'Europa ha colpevolmente rimosso, prima (non dando importanza ai
fermenti nazionalistici che sotto traccia infettavano i territori), durante
(volgendo lo sguardo altrove, mentre accadevano atti di una ferocia
inenarrabile) e dopo (cercando di chiudere velocemente i conti con la Storia).
Il risultato è che non tutti hanno chiara contezza di che cosa sia avvenuto a
un braccio di mare dalle nostre spiagge, poco più di 20 anni fa.
La generazione
che nulla ne sa in assoluto è quella dei ragazzi, all'epoca o neppure nati o
troppo piccoli per interessarsi a fatti raccontati nei telegiornali e adesso
non aiutati dai programmi scolastici di storia che al Novecento già faticano ad
arrivare, figuriamoci agli anni Novanta. Eppure basterebbe fare qualche nome, solo
per limitarsi allo sport: Novak Djokovic, classe 1987, serbo (madre croata e
padre montenegrino), che da ragazzino si allenava nelle zone bombardate dalla
Nato; Edin Dzeko, classe 1986, bosniaco, che ha passato l'infanzia a
nascondersi per trovare riparo da spari e bombe; Miralem Pjanic, classe 1990,
bosniaco, costretto a lasciare la sua patria per il Lussemburgo, come, d'altra parte, Mario
Mandzukic, 1986, croato, costretto a riparare in Germania. Per non parlare del Pallone
d'oro, Luka Modric, 1985, croato, il cui nonno fu assassinato dai serbi, e che
imparò a tirare i primi calci nel parcheggio di un ex albergo adibito a rifugio
di fortuna per i profughi croati. I giovani che scandiscono il loro nome negli
stadi spesso non immaginano nemmeno quanto l'infanzia di questi campioni sia stata difficile, cresciuti come furono nella guerra e nell'odio razziale.
Un buon modo per far
sapere ai Millennials che cosa è successo non ai loro bisnonni e trisnonni, ma
ai loro campioni del cuore, a ragazzi appena poco più grandi di loro, rimane
pur sempre la letteratura, il caro, vecchio, buon romanzo. Un libro potrebbe davvero
rappresentare un ponte perché sappiano e perché scatti in loro quella fiammella
civile che li porti a dire: "Mai più".
Tre serbi, due
musulmani, un lupo è un romanzo che va esattamente in questa direzione.
Scritto da Luca Leone, giornalista, grande conoscitore dei conflitti balcanici,
e da Daniele Zanon, sceneggiatore e regista, il libro, che si rivolge prettamente
a un pubblico di ragazzi, prende le mosse da quel momento in cui in una
cittadina bosniaca, Prijedor, da poco passata nella Repubblica serba di Bosnia,
entra nel vortice della guerra e da tranquillo posto di provincia, dove serbi
ortodossi e musulmani convivono da sempre condividendo scuole, condomini,
amicizie, amori, matrimoni, si trasforma nell'anticamera dell'Inferno.
Gli autori scelgono
di raccontare le terribili vicende del libro dal punto di vista di un gruppetto
di ragazzini tredicenni, compagni di scuola: tre serbi, Zlatan, Milorad e Jelena, con il
suo inseparabile lupo Vuk, e due musulmani, i gemelli Faris ed Emina. A unirli
è una grandissima amicizia e nulla li divide, né religione, né cultura, né usi
e costumi diversi. Sono solo un gruppo di amici che la giovane età lega di un
sentimento che ha l'orizzonte dell'eternità. Ancora non sanno che quella
famigerata primavera del 1992 (purtroppo solo la prima di tante) li costringerà
a diventare adulti di colpo.
Partono le prime
avvisaglie di quella che tristemente impareremo a definire "pulizia
etnica" e i serbi iniziano a rastrellare tutti i "non serbi"
dalla città per avviarli in quelli che, si sussurra, sembrano proprio campi di
prigionia: Keraterm, Trnopolje, la miniera di Omarska. Prigionia? Ma per chi?
Ma è possibile? Queste cose avvenivano durante le guerre mondiali, anni prima,
non può essere che il mondo, e soprattutto l'Europa lascino fare. Eppure accade proprio questo e anche i due
piccoli gemelli musulmani vengono fatti salire su un camion e portati al campo.
Ma naturalmente i tre piccoli amici serbi non ci stanno e armati di rabbia, di
fionda e bulloni e di una mazza da baseball (sempre accompagnati dal fedele lupo)
si dirigono alla volta di Trnopolje decisi a liberare i loro amici. E mentre le fila
dell'orrore vengono tenute dai cattivi maestri, come lo psichiatra e presidente
Radovan Karadzic, il maestro buono dei cinque ragazzini è una figura grande e
positiva, la cui luce non fa a tempo a brillare.
Josip pensò ai suoi ragazzi, studenti della scuola media di Prijedor. Erano come tutti i ragazzi del mondo. Alcuni volonterosi, altri svogliati. Appartenevano a famiglie molto diverse, almeno sulla carta. C'erano ragazzi croati di tradizione cattolica, bosniaci musulmani e serbi ortodossi. E poi c'erano gli "altri". Le minoranze. I suoi ragazzi erano in grado di vivere in pace, ma il mondo, alle loro spalle, la pensava diversamente. In uno strettissimo orizzonte temporale, il professore vedeva il rischio che anche i suoi studenti sarebbero stati costretti a mettersi gli uni contro gli altri. (p. 46)
Quanto ci aveva
visto lungo il professore! Non passerà molto tempo prima che i ragazzini della
scuola vedranno il loro mondo crollare miseramente, saranno costretti ad
assistere a cose che l'occhio umano non dovrebbe mai vedere: nulla della
violenza perpetrata dai paramilitari contro i non serbi viene infatti
risparmiata agli occhi dei bambini. Violenza cieca, stupida, gratuita, inferta
per divertimento. E mentre il "gioco poteva avere inizio" nei campi
di prigionia, anche per Zlatan, Milo, Jelena e il lupo la sfida prende l'avvio.
La posta in gioco? La liberazione di Faris ed Emina, la bella ragazzina che
faceva battere il cuore di Zlatan e sulla quale si sono già poggiati gli
schifosi occhi e le viscide mani del colonnello Karpov.
Da qui si dipartono
i due piani di lettura di cui consta il libro: uno, più propriamente
favolistico, che racconta le vicende dei ragazzini all'assalto e uno, ben più
drammatico, direi quasi cronachistico, delle atrocità compiute dai paramilitari
serbi e russi nei confronti di uomini, donne e bambini rinchiusi nei campi di
prigionia e sterminio. I due piani narrativi, a volte, tendono a scorrere l'uno
sopra l'altro, senza fondersi completamente e se la ferrea convinzione dei
ragazzi a liberare i loro amici e le peripezie da loro compiute per arrivare
all'obiettivo fanno sembrare il romanzo una lettura adatta ai più giovani,
di certo le violenze che accadono all'interno dei campi di prigionia, narrate
senza sconti, rendono il libro un po' troppo crudo per lettori ancora acerbi. Se
proprio vogliamo dare una fascia di pubblico a questo romanzo, la possiamo
individuare, oltreché naturalmente negli adulti, nei giovani degli ultimi anni
delle scuole superiori (un consiglio ai prof: inseritelo nelle famose liste di libri consigliati). E se in alcuni punti le gesta
dei tre ragazzini serbi possono essere tacciate di inverosimiglianza e di
eccessiva irrealtà favolistica, non dimentichiamo che l'intento del romanzo è
quello di essere un simbolo, una testimonianza narrativa di ciò che avvenne.
Vista dagli occhi degli innocenti.
Non racconterò altro
della trama (ah dimenticavo, oltre al lupo, c'è pure un orso che fa la sua
parte), mi limito a fare un paio di osservazioni: i dialoghi, a volte,
intendendo esprimere un mondo di valori, opinioni e sentimenti tipici di un
popolo, corrono il rischio di risultare un poco artificiosi in bocca a dei
ragazzini, pur se cresciuti improvvisamente.
Nonostante queste
piccole discrepanze, Tre serbi, due musulmani, un lupo è un libro
da leggere perché ha il pregio di ricordare che cosa avvenne in quei territori
e onore al merito per Infinito edizioni, questa piccola casa editrice di Formigine
(Modena) che ha scelto come fulcro dei suoi interessi il rispetto dei diritti
umani (basta sfogliare il loro catalogo, ricco in particolare di testi sulla
guerra nei territori della ex Jugoslavia,
per rendersi conto di come questa realtà editoriale voglia essere
presente là dove il rispetto è soltanto una parola priva di significato).
Rosatea Poli