Nasce a vent’anni dagli eventi narrati, e da una duplice istanza, questo scritto di Emilio Lussu. Nel 1936, Lussu era stato costretto da un delicato intervento chirurgico a una lunga convalescenza in un sanatorio svizzero. L’immobilità forzata non poteva che essere un tormento per un uomo come lui, votato all’attivismo, alla politica: fondatore del Partito Sardo d’Azione, era presto entrato in conflitto con il PNF e condannato al confino a Lipari, da cui era evaso rocambolescamente per trovare riparo in Francia, dove aveva portato avanti una militanza antifascista che sarebbe poi culminata nella partecipazione attiva alla Resistenza. Nel ’36 dunque, l’inquietudine e il dinamismo devono essere imbrigliate. Questo, e l’insistenza dell’amico Gaetano Salvemini, che gli reclamava “il libro” sulla guerra, lo portano finalmente a scrivere il suo racconto. Un racconto dagli intenti ben precisi, dalla delimitazione spaziale cronologica chiara e circoscritta: l’altipiano è quello di Asiago, l’anno quello che si estende tra il giugno 1916 e il luglio 1917. Non si può dire tutto, della guerra: si cerca allora di dire qualcosa, di mettere a fuoco un frammento, che però – come nelle poesie di Giuseppe Ungaretti – diviene specchio dell’universalità di un’esperienza tragica.
Il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo, né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati a un anno, fra i quattro di guerra ai quali ho preso parte. Io non ho raccontato che quello che ho visto e mi ha maggiormente colpito. Non alla fantasia ho fatto appello, ma alla mia memoria. […] Non si tratta quindi di un lavoro a tesi: esso vuole essere solo una testimonianza italiana della grande guerra. (p. 9)
Non c’è da stupirsi che Mario Rigoni Stern abbia amato questo testo al punto da scriverne, con accenti commossi, l’introduzione: chi ha letto Il sergente nella neve riconoscerà in entrambe le opere la stessa narrazione lineare e scabra, priva di orpelli, antieroica, con punte di volontaria ironia non già per sminuire l’importanza degli eventi, ma per far emergere gli aspetti più grotteschi della guerra così come vissuta al fronte (e non vi sono poi tante differenze, anche se la guerra di cui si parla non è la medesima). Perché, che si tratti del primo o del secondo conflitto mondiale, l’impressione che emerge nella prospettiva dei soldati che combattono in prima linea è similare: l’incoerenza degli ordini, l’assoluta aleatorietà di vittorie e sconfitte.
Nel memoriale di Lussu, la sequela dei giorni in trincea si coagula intorno ad aneddoti precisi, netti, che restituiscono un quadro amaro della vita del milite: l’alcol – in particolare il cognac – come mezzo per farsi forza e affrontare l'insensato; l’invasamento stolido di alcuni superiori in grado, che sottomettono a una retorica vuota e disancorata al reale la vita dei sottoposti. Emblema di questo è il ritratto del generale Leone, agghiacciante nel suo invasamento, nella sua cecità:
Sull’attenti, io gli davo le novità del battaglione.
– Stia comodo, – mi disse il generale in tono corretto e autoritario. –
Dove ha fatto la guerra, finora?
– Sempre con la brigata, sul Carso.
– È stato mai ferito?
– No, signor generale.
– Come, lei ha fatto tutta la guerra e non è stato mai ferito? Mai? […]
Il generale non sorrise. Già, credo che per lui fosse impossibile sorridere. Aveva l’elmetto d’acciaio con il sottogola allacciato, il che dava al suo volto un’espressione metallica. La bocca era invisibile, e, se non avesse portato dei baffi, si sarebbe detto un uomo senza labbra. Gli occhi erano grigi e duri, sempre aperti come quelli d’un uccello notturno di rapina.
Il generale cambiò argomento.
– Ama lei la guerra?
Io rimasi esitante. Dovevo o no rispondere alla domanda? Attorno v’erano ufficiali e soldati che sentivano. Mi decisi a rispondere.
– Io ero per la guerra, signor generale, e alla mia Università, rappresentavo il gruppo degli interventisti.
– Questo, – disse il generale con tono terribilmente calmo, – riguarda il passato. Io le chiedo del presente.
– La guerra è una cosa seria, troppo seria ed è difficile dire se… è difficile… Comunque, io faccio il mio dovere –. E poiché mi fissava insoddisfatto, soggiunsi: – Tutto il mio dovere.
– Io non le ho chiesto, – mi disse il generale, – se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra.
– Amare la guerra! – esclamai io, un po’ scoraggiato.
Il generale mi guardava fisso, inesorabile. Le pupille gli si erano fatte più grandi. Io ebbi l’impressione che gli girassero nell’orbita.
– Non può rispondere? – incalzava il generale.
– Ebbene, io ritengo… certo… mi pare di poter dire… di dover ritenere…
Io cercavo una risposta possibile.
– Che cosa ritiene lei, insomma?
– Ritengo, personalmente, voglio dire io, per conto mio, in linea generale, non potrei affermare di prediligere, in modo particolare, la guerra.
– Si metta sull’attenti!
Io ero già sull’attenti.
– Ah, lei è per la pace?
Ora, nella voce del generale, v’erano sorpresa e sdegno.
– Per la pace! Come una donnetta qualsiasi, consacrata alla casa, alla cucina, all’alcova, ai fiori, ai suoi fiori, ai suoi fiorellini! È così, signor tenente?
– No, signor generale.
– E quale pace desidera mai, lei?
– Una pace…
E l’ispirazione mi venne in aiuto.
– Una pace vittoriosa.
Il generale parve rassicurarsi. Mi rivolse ancora qualche domanda di servizio e mi pregò di accompagnarlo in linea. (p. 50-52)
Mentre l'esperienza della guerra tende a ridurre alla disumanità e alla barbarie, Lussu si aggrappa alla cultura per sentirsi ancora uomo. Come farà Meneghello, che discorre di Rimbaud e Baudelaire con i suoi piccoli maestri durante le marce in montagna nel corso della Resistenza, come Levi che rievocherà il canto di Ulisse nei campi di concentramento, così anche il tenente porta con sé tre libri trovati per caso (l'Orlando furioso, i Fiori del Male, un trattato di ornitologia) e vi si aggrappa, come memoria di una vita passata che ancora lo definisce e che non può essere cancellata dall'esperienza nelle trincee, nonostante vi sia chi lo giudica folle, fuori dal tempo, e opponga valori diversi:
- Tu leggi? - mi disse - Non hai vergogna?
- E perché non dovrei leggere? - risposi.
[...]
- Bere e vivere. Cognac. Dormire e vivere e cognac. Stare all'ombra e vivere. E ancora del cognac. E non pensare a niente. Perché, se dovessimo pensare a qualcosa, dovremmo ucciderci l'un l'altro e finirla una volta per sempre. E tu leggi? (p. 112, 113)
Eppure forse restare umani è l’unico modo per sopravvivere – non solo nel corpo, ma anche nello spirito. Per combattere la follia, che si porta via molti valorosi, o il terrore, che spinge spesso ad azioni insensate. Per guardare l’altro, il nemico, in modo nuovo, e distinguere la necessità della guerra dalla ferocia gratuita, a cui troppi si abbandonano:
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile […] Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. […] Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. […] Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: «Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido» è un'altra. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. (p. 136, 137-138)
Tanti, nelle trincee, sono studenti, professori, contadini, professionisti. I più non la sanno fare, la guerra. Tutti sono soggetti all'arbitrio dei superiori, non sempre equilibrati e giusti (di quelli che lo sono, e muoiono in battaglia, il tenente Lussu offre ritratti indimenticabili). I modi di affrontare un conflitto spesso non scelto, voluto, condiviso, hanno tante sfaccettature quanti sono gli uomini coinvolti. L’autore ne mette in evidenza alcuni – più o meno retti, coraggiosi, nobili –, ma senza giudicarne nessuno. La sua narrazione tratteggia gli eventi senza commentarli: raramente la riprovazione, se c’è, è esplicita, anche nei casi più biasimevoli. Perché dietro a ogni individuo c’è una storia che non si conosce, e pertanto non si può valutare in maniera definitiva. Anche in questo, nel non voler scrivere un romanzo a tesi, nel non voler imporre al lettore un’idea specifica, una univoca interpretazione delle scelte e dei personaggi, si rivela la profonda umanità di Lussu. L’unica opinione che emerge, forte, tra le righe, che risuona in ogni pagina anche al di là delle intenzioni dello scrittore, che fa stringere i denti per la franca durezza di alcuni passi, è la condanna di una guerra che è stata condotta, trascinata, a scapito di chi l’ha davvero combattuta. È questo a rendere il testo vivo e attuale, oggi come nel 1936.
Edizione di riferimento: Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, Torino, Einaudi, 2014.
Carolina Pernigo