Vita di Alfons Mucha.
Nel cuore dell’Art Nouveau
di Patrizia Runfola
prefazione di Claudio Magris
con un saggio di Gérard-Georges Lemaire
Lindau, 2019
pp. 266
€ 24,00 (cartaceo)
€ 16,99 (ebook)
Primato della figura femminile e sua assimilazione alla flora, celebrazione della natura specialmente nel rigoglio delle sue infiorescenze, senso di grazia e malizia, vitalità e mitezza, chiome fluttuanti con ciocche “a liana”, trionfo di linee ondulate “a colpo di frusta”, asimmetria, bidimensionalità e dinamismo della composizione, tenui colori pastello: tutto questo è Art Nouveau (perlomeno nella sua declinazione squisitamente figurativa) e tutto questo è Alfons Mucha (1860-1939), ovvero l’artista ceco che come pochi altri ha contribuito al successo dell’epocale movimento estetico variamente denominato “Jugendstil” (Germania), “modern style” (Inghilterra), “Sezessionstil” (Austria), “style sapin” (Svizzera), “arte jóven” (Spagna) e “Liberty” (Italia). Quale scelta migliore della sua Rêverie (1897), dunque, per illustrare la copertina del volume biografico a lui dedicato da Patrizia Runfola e appena pubblicato da Lindau? La soave fanciulla immersa in un’atmosfera di sogno, circondata da un’aureola di boccioli variopinti che sembrano germogliare direttamente dalla sua acconciatura, ricambia lo sguardo dell’osservatore e lo invita a sfogliare le pagine, dove troverà un ritratto ammirato del suo autore accompagnato da quello – indiretto ma non meno intenso – della sua studiosa.
Si capisce subito che il lavoro di Patrizia Runfola (1951-1999) ha poco in comune con la più asettica tradizione biografica. Non può averlo, del resto, dal momento che la sua dedizione alla vita e all’opera di Mucha si nutre di una peculiare alchimia in cui il rigore dei dati storico-critici si fonde con l’interesse magnetico per una città – Praga al crocevia tra Ottocento e Novecento – e per un’individualità troppo complessa per essere tutta risolta e compresa nelle sue manifestazioni più popolari e inflazionate. Articolato in cinque parti e non di rado “interpolato” con lunghi brani tratti da conversazioni e scambi con Jiří Mucha, figlio dell’artista incontrato a più riprese, il libro è nel contempo biografia e storia della stessa: c’è tutto ciò che occorre sapere del pittore e decoratore destinato a passare alla storia, ma ci sono anche tracce e indizi a sufficienza per ripercorrere le vie sinuose di un magnifica ossessione conoscitiva che porta a documentarsi, intervistare, viaggiare, fantasticare, rielaborare in modo immaginativo; fino a percepire e far percepire lo stesso Mucha – come scrive Gérard-Georges Lemaire nel suo saggio introduttivo – «attraverso il prisma così singolare e così sconvolgente della cultura praghese», per contemplarne infine «un ritratto che non si riferisce più solo alle apparenze, bensì alla dimensione estetica dell’uomo, quella che lo lega intimamente all’eternità» (p. 19).
Giocato su tre elementi chiave quali il “destino”, il “teatro” e il “senso della terra” – per mettere in luce, rispettivamente, la volontà superiore da cui l’artista si sentiva guidato, la sua lunga e fortunata frequentazione con il mondo del palcoscenico e la sua profonda appartenenza a una radice storico-etnica come quella ceca – il lavoro di Patrizia Runfola ripercorre le tappe di un divenire artistico dapprima in faticosa salita e poi in costante ascesa, in cui i dettagli aneddotici utili a rivelare un carattere si giustappongono a eventi di importanza pubblica tali da determinare le svolte e gli snodi di una carriera che lo volle itinerante, diviso tra Praga, Vienna, Monaco, Parigi, New York, Chicago e Filadelfia. Ecco la precoce fascinazione per la religione e la rispettiva liturgia, che influì sulla sua idea di pittura alla pari della passione per la musica (e per la fotografia e il cinematografo); ecco l’incontro e l’amicizia con Strindberg e Gauguin; ecco la collaborazione con la divina Sarah Bernhardt, iniziata fatalmente la notte di Natale del 1894, per la quale fu cartellonista, costumista e scenografo; ecco i venti (e sfortunati) riquadri dell’Epopea Slava, fortemente voluti negli anni della maturità e mal compresi dai suoi stessi compatrioti, che oltre a rimproverare a Mucha la lunga assenza dalla sua terra d’origine ne fecero presto il bersaglio prediletto da parte dei modernisti, che ne rilevarono l’anacronismo rispetto alle più recenti ricerche formali del linguaggio figurativo. Con una prosa ispirata e suggestiva che tiene insieme il racconto della vita dell’artista e quello del processo di studio e ricerca, Patrizia Runfola consegna ai lettori un testo appassionante e appassionato, al perfetto crocevia tra l’esercizio di narrazione pura – quella che conquista e nel contempo divulga – e il volume che si consulta per ragioni di studio e approfondimento.
Val bene la lettura, dunque, questa bella biografia di Alfons Mucha. Perché tra le pagine non vi si troverà l’arida (seppure a suo modo utile) giustapposizione cronologica di vicende esistenziali e artistiche, bensì il racconto partecipe di una studiosa che non cela mai passione a ammirazione per l’oggetto del suo lavoro di ricerca; senza irritanti fanatismi e senza partigianerie fini a se stesse, ma nell’ammissione di una malia subita – e peraltro già esplicitata in altri lavori – che rende ancora più gradevole il racconto della vita e della vocazione dell’artista ceco. Chi conosce Mucha solo per il suo primato nell’ambito dell’Art Nouveau avrà modo di scoprirne le difficoltà degli esordi e le complicazioni successive ai maggiori successi, mentre gli estimatori veri e propri apprezzeranno lo stile con cui l’autrice ricorderà loro l’evoluzione dell’artista, del suo stile e del suo credo.
Cecilia Mariani
Nel cuore dell’Art Nouveau
di Patrizia Runfola
prefazione di Claudio Magris
con un saggio di Gérard-Georges Lemaire
Lindau, 2019
pp. 266
€ 24,00 (cartaceo)
€ 16,99 (ebook)
Primato della figura femminile e sua assimilazione alla flora, celebrazione della natura specialmente nel rigoglio delle sue infiorescenze, senso di grazia e malizia, vitalità e mitezza, chiome fluttuanti con ciocche “a liana”, trionfo di linee ondulate “a colpo di frusta”, asimmetria, bidimensionalità e dinamismo della composizione, tenui colori pastello: tutto questo è Art Nouveau (perlomeno nella sua declinazione squisitamente figurativa) e tutto questo è Alfons Mucha (1860-1939), ovvero l’artista ceco che come pochi altri ha contribuito al successo dell’epocale movimento estetico variamente denominato “Jugendstil” (Germania), “modern style” (Inghilterra), “Sezessionstil” (Austria), “style sapin” (Svizzera), “arte jóven” (Spagna) e “Liberty” (Italia). Quale scelta migliore della sua Rêverie (1897), dunque, per illustrare la copertina del volume biografico a lui dedicato da Patrizia Runfola e appena pubblicato da Lindau? La soave fanciulla immersa in un’atmosfera di sogno, circondata da un’aureola di boccioli variopinti che sembrano germogliare direttamente dalla sua acconciatura, ricambia lo sguardo dell’osservatore e lo invita a sfogliare le pagine, dove troverà un ritratto ammirato del suo autore accompagnato da quello – indiretto ma non meno intenso – della sua studiosa.
Si capisce subito che il lavoro di Patrizia Runfola (1951-1999) ha poco in comune con la più asettica tradizione biografica. Non può averlo, del resto, dal momento che la sua dedizione alla vita e all’opera di Mucha si nutre di una peculiare alchimia in cui il rigore dei dati storico-critici si fonde con l’interesse magnetico per una città – Praga al crocevia tra Ottocento e Novecento – e per un’individualità troppo complessa per essere tutta risolta e compresa nelle sue manifestazioni più popolari e inflazionate. Articolato in cinque parti e non di rado “interpolato” con lunghi brani tratti da conversazioni e scambi con Jiří Mucha, figlio dell’artista incontrato a più riprese, il libro è nel contempo biografia e storia della stessa: c’è tutto ciò che occorre sapere del pittore e decoratore destinato a passare alla storia, ma ci sono anche tracce e indizi a sufficienza per ripercorrere le vie sinuose di un magnifica ossessione conoscitiva che porta a documentarsi, intervistare, viaggiare, fantasticare, rielaborare in modo immaginativo; fino a percepire e far percepire lo stesso Mucha – come scrive Gérard-Georges Lemaire nel suo saggio introduttivo – «attraverso il prisma così singolare e così sconvolgente della cultura praghese», per contemplarne infine «un ritratto che non si riferisce più solo alle apparenze, bensì alla dimensione estetica dell’uomo, quella che lo lega intimamente all’eternità» (p. 19).
Giocato su tre elementi chiave quali il “destino”, il “teatro” e il “senso della terra” – per mettere in luce, rispettivamente, la volontà superiore da cui l’artista si sentiva guidato, la sua lunga e fortunata frequentazione con il mondo del palcoscenico e la sua profonda appartenenza a una radice storico-etnica come quella ceca – il lavoro di Patrizia Runfola ripercorre le tappe di un divenire artistico dapprima in faticosa salita e poi in costante ascesa, in cui i dettagli aneddotici utili a rivelare un carattere si giustappongono a eventi di importanza pubblica tali da determinare le svolte e gli snodi di una carriera che lo volle itinerante, diviso tra Praga, Vienna, Monaco, Parigi, New York, Chicago e Filadelfia. Ecco la precoce fascinazione per la religione e la rispettiva liturgia, che influì sulla sua idea di pittura alla pari della passione per la musica (e per la fotografia e il cinematografo); ecco l’incontro e l’amicizia con Strindberg e Gauguin; ecco la collaborazione con la divina Sarah Bernhardt, iniziata fatalmente la notte di Natale del 1894, per la quale fu cartellonista, costumista e scenografo; ecco i venti (e sfortunati) riquadri dell’Epopea Slava, fortemente voluti negli anni della maturità e mal compresi dai suoi stessi compatrioti, che oltre a rimproverare a Mucha la lunga assenza dalla sua terra d’origine ne fecero presto il bersaglio prediletto da parte dei modernisti, che ne rilevarono l’anacronismo rispetto alle più recenti ricerche formali del linguaggio figurativo. Con una prosa ispirata e suggestiva che tiene insieme il racconto della vita dell’artista e quello del processo di studio e ricerca, Patrizia Runfola consegna ai lettori un testo appassionante e appassionato, al perfetto crocevia tra l’esercizio di narrazione pura – quella che conquista e nel contempo divulga – e il volume che si consulta per ragioni di studio e approfondimento.
Val bene la lettura, dunque, questa bella biografia di Alfons Mucha. Perché tra le pagine non vi si troverà l’arida (seppure a suo modo utile) giustapposizione cronologica di vicende esistenziali e artistiche, bensì il racconto partecipe di una studiosa che non cela mai passione a ammirazione per l’oggetto del suo lavoro di ricerca; senza irritanti fanatismi e senza partigianerie fini a se stesse, ma nell’ammissione di una malia subita – e peraltro già esplicitata in altri lavori – che rende ancora più gradevole il racconto della vita e della vocazione dell’artista ceco. Chi conosce Mucha solo per il suo primato nell’ambito dell’Art Nouveau avrà modo di scoprirne le difficoltà degli esordi e le complicazioni successive ai maggiori successi, mentre gli estimatori veri e propri apprezzeranno lo stile con cui l’autrice ricorderà loro l’evoluzione dell’artista, del suo stile e del suo credo.
Cecilia Mariani
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