di Barbara Comyns
Safarà, 2019
Traduzione di Cristina Pascotto
Traduzione di Cristina Pascotto
pp. 156
€ 16 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
«Mi sono mancate così tanto in questi anni, le colline e le montagne. Il sole vi scompariva dietro così improvvisamente, e le nuvole si ingarbugliavano con le loro vette. [...] Muschio di colore marrone scuro cresceva vicino alla fattoria; e una volta ho visto una bambina galleggiarvi sulla superficie. Era morta, ma non avevo paura perché aveva un aspetto così pure mentre galleggiava lassù, con gli occhi aperti e il grembiule blu che si muoveva con delicatezza. Era Flora, una bambina che era dispersa da tre giorni…» (p. 29).
Non ebbe un’istruzione convenzionale quest’autrice inglese nata nel 1907 da una famiglia povera; questo non le impedì di scrivere undici romanzi considerati eccellenti esempi di letteratura gotica. De La ragazza che levita, romanzo del 1959 pubblicato da Safarà nella traduzione di Cristina Pascotto, anche Graham Greene si compiacque.
The Vet’s daughter, questo il titolo originale, racconta la storia di Alice Rowlands, una giovane cresciuta nella periferia londinese nei primi anni del Novecento all’ombra di una che, più che una famiglia, è uno squarcio; la sua vita, cadenzata da piccoli gesti quotidiani in un ambiente sgradevole, subisce vari cambiamenti: nuovi scenari, nuovi strambi personaggi scuotono la sua esistenza e la sinistra capacità di levitare la sorprende una notte.
«Arrivò l’autunno, e mia madre continuava a morire nella sua stanza».
Stupisce anzitutto la scrittura, dove l’ironia sottile, il realismo e melanconiche tonalità autunnali vivono insieme alla delicatezza e a visioni oscure; le vicende della protagonista vengono narrate in una modalità che più volte è stata definita insolita e anche in questo consiste la peculiarità di Comyns: permette al lettore di gettare lo sguardo su un mondo a tinte fosche ed entrare a far parte di atmosfere gotiche dai tratti angoscianti, che non sfociano mai in evidenti visioni horror, senza che questo tolga nulla all’immaginario tetro evocato in alcune pagine. A denotare la storia di una nota di realismo magico, il misterioso potere della protagonista: Alice levita in seguito a momenti di dolore o di inquietudine.
Su ogni aspetto della sua vita incombe il padre: La ragazza che levita racconta un patriarcato invincibile e di un sentimento di assoluta impotenza rispetto alla figura paterna; molto poco succede nella sua vita senza il benestare del dottor Rowlands e, oltre che attraverso il comportamento dei personaggi, Comyns lo descrive attraverso lo spazio, connotato a livello cromatico e olfattivo: casa Rowlands è anche un ambulatorio, un covo di cattivi odori dove l’acqua della caraffa di vetro ha un aspetto “stantio”, l’albero di agrifoglio vicino alla finestra della sala è “vecchio e sudicio” come la vestaglia della madre, e la stufa è “untuosa”.
Comyns popola il mondo di Alice di personaggi inusuali: alcuni sanno essere amorevoli, come Lucy, l’amica sordomuta e Mrs. Churchill, l’affettuosa governante misandre che la mette in guardia dagli uomini: «non sprecarci un solo pensiero»; altri riversano su di lei la propria cattiveria, altri si rivelano tormentati, melanconici come Mrs. Peebles, alla quale Alice si avvicina un poco: «Così ci sedemmo vicine nella stanza che si andava oscurando e diventammo amiche»; non mancano figure inquietanti, come la donna che «se ne stava all’ingresso a chiamare i suoi corvi, e questi vennero a lei in una maestosa processione», sono pagine ricche di visioni funeste e di cattivi presagi.
Tra gli autori ai quali si fa spesso riferimento per definire la scrittura di Comyns si spazia da King a Flannery O’Connor fino ad Angela Carter; più difficile è individuare quelli che l’hanno formata come lettrice, poiché non è dato leggere sue interviste. In questo consiste la meraviglia delle sue pagine, la scoperta di «quell’occhio innocente che osserva con semplicità infantile l’avvenimento più fantastico o inquietante» di cui parla Graham Greene, che mentre leggevo chiamavo inconsapevolezza; un’attitudine che raramente distingue le pagine insieme alla maestria.
L’autrice dà il meglio di sé nelle descrizioni del paesaggio dell’Hampshire, dove prevalgono colori dorati: «Quando uscii il sole si era appena alzato ed era molto chiaro. Il giardino era vasto e aperto e oltre si stendeva l’acqua, luccicante tra gli alberi di pino. Tra un piccolo boschetto di abeti si snodava un sentiero stretto. Lo seguii finché mi condusse all’acqua. […] Oltre l’acqua c’erano i campi piatti, con lunghi fili d’erba che si muovevano delicatamente al soffio della brezza» (pag.93).
Qui e là, insoliti nomi di piante: ligustro, asteracee e solidago, ebilobio, acetoselle e suggestive descrizioni di paesaggi tradiscono la profonda conoscenza della campagna da parte dell’autrice e tentano il lettore di indagare la sua vita.
«Poi mi confortò la consapevolezza di non essere perlomeno piantata a terra come la maggior parte delle persone». (pag. 121)
La storia di Alice denuncia la condizione di subalternità della donna nell’epoca eduardiana, dalla quale era difficile liberarsi anche solo a livello psicologico; un mondo dove il miraggio assume la forma di un amore tenero e ci si chiede se l’ultima speranza di porre fine all’ingiustizia sia la morte.
Il grottesco e il tormento raccontati con la delicatezza di un’adolescente, la scrittura fine e limmaginario fosco rendono La ragazza che levita un gran bel viaggio, per ogni lettore.
Lorena Bruno
Lorena Bruno
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