Francis Bacon. Graphic biography.
La violenza di una rosa
di Cristina Portolano
Centauria, 2019
pp. 126
€ 19,90 (cartaceo)
La violenza di una rosa
di Cristina Portolano
Centauria, 2019
pp. 126
€ 19,90 (cartaceo)
Può una rosa essere violenta? A prendere in considerazione la sua natura, fatta di petali ma anche di spine, il fiore per eccellenza testimonia l’essenza perfetta della realtà, la stessa che Francis Bacon (1909-1992) cercava di riprodurre sulla tela andando oltre il semplice dato reale e saggiando la violenza delle suggestioni interne all’immagine, quelle che potevano essere espresse soltanto per il tramite della (sua) pittura. Tanto più che per lui, esempio di genio e sregolatezza quant’altri mai, vita e arte andarono sempre di pari passo, in ossequio a una personalissima contro-estetica del vivere e del creare. A ricordarcelo oggi ancora una volta è una graphic biography di Cristina Portolano appena pubblicata da Centauria, casa editrice che, dopo quelli su Egon Schiele e Jean-Michel Basquiat, porta a tre il numero dei volumi illustrati dedicati ad artisti le cui esistenze e le cui opere lasciarono il segno per originalità e maledettismo. Un segno che l’uomo inquieto e vagabondo nato a Dublino e morto a Madrid avrebbe volentieri assimilato a una bava di lumaca.
Se si pensa alla refrattarietà di Bacon nei confronti di ogni genere di definizione e categorizzazione (della sua persona come del suo lavoro), è per certi versi curioso vederne “le gesta” incasellate nella griglia sintetica tipica del fumetto, tanto più che la suddivisione della pagina prescelta dall’autrice è sempre piuttosto ordinata e geometrica. Una regolarità che caratterizza anche la scansione temporale, che è cronologica e con una suddivisione in quattro blocchi, tre dei quali recano titoli tematici allusivi: Il corpo, Lo spirito e La virtù. Cristina Portolano ci mette però, e ovviamente, dell’altro. Difatti, e per esplicita ammissione, la sua vuole essere una “versione” autoriale degli avvenimenti, che pur partendo dallo studio preliminare delle principali fonti iconografiche (tra cui le foto di John Deakin e Daniel Farson) e bibliografiche (tre libri in particolare: Conversazioni con Michel Archimbaud, Una vita dorata nei bassifondi e La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester) amalgama a propria discrezione elementi documentati con altri di più dubbia veridicità, e di conseguenza enfatizza e dissimula, sparpagliando riferimenti, citazioni, aneddoti e dettagli. Lo stesso si dica per il dichiarato omaggio alla tavolozza dell’artista, in cui la palette baconiana, perfettamente riconoscibile e costantemente evocata, convive con tinte pastello, in un’esaltazione reciproca di grande effetto. Il risultato è un libro che vuole porsi quasi come una collaborazione post mortem, e che accetta la sfida delle complessità e delle contraddizioni insite in un simile procedimento di contaminazione.
Guidati da una voce narrante di cui chi scrive questo commento non svelerà l’identità (la scelta di Cristina Portolano è troppo felice e simbolica per guastare la sorpresa ai futuri lettori), si familiarizza con il giovane e il meno giovane Francis e se ne ripercorrono le tappe della vita – che fu lunga: morì a ottantotto anni a dispetto degli amati eccessi – e della carriera – che dopo le iniziali perplessità della critica e del pubblico lo portò a venire osannato come uno dei principali pittori del suo tempo. Difficile se non impossibile, nel suo caso come in quello del futuro sodale Lucian Freud, scindere il tran tran quotidiano dalla prassi della vita in studio: il primo trasse sempre linfa dall’amalgama di omosessualità, promiscuità e passione per l’illecito e per l’azzardo che ne scandiva i giorni e le notti, mentre la seconda si alimentava a sua volta della constatazione della fugacità e della precarietà dello stare al mondo, di abitare all’interno di un consorzio umano in fin dei conti ruvido e brutale e di essere tuttavia condannati a sopravvivergli. Errabondo da sempre, da quando le presunte tare dell’asma cronica e dell’effeminatezza lo faranno cacciare di casa, Bacon conoscerà le delizie e il degrado delle grandi capitali europee (Londra, Berlino, Parigi) ma anche i piaceri della vita mediterranea, alternando la furia di consumare il proprio corpo nel contatto e nel miscuglio con l’altrui a quella disciplina pittorica che lo avrebbe portato a fare qualcosa di grande e potente per mezzo dei suoi quadri; qualcosa di efficace come il fotogramma di un celebre film russo, qualcosa di mutante come un non-finito di scultorea memoria, qualcosa di sincero come una bocca dipinta con la stessa intensità di un tramonto impressionista. Amanti, amici, colleghi, mecenati: il tourbillon de la vie di Bacon – che fu egli stesso, a suo modo, un tourbillon – risucchiava indifferentemente persone e cose, estasi e traumi, traducendole in immagini che, passato lo sconcerto, si sarebbero rivelate specchio perfetto del frastuono e del furore dell’umanità contemporanea.
La violenza di una rosa è il tentativo ben riuscito di dare immagine a una biografia fatta di altezze sublimi e di basso corporeo, ed è da credere che i cultori del pittore la sfoglieranno volentieri, apprezzandone le scelte a livello narrativo e stilistico. Può anche capitare, a fine lettura, di indugiare a lungo sulle ultime tavole, vuote di figure e cariche di atmosfera, in cui l’ordine di una casa-alcova contrasta con il caos necessario di uno studio macerato nella vernice e nella sporcizia, intorno all’ultima opera appena abbozzata su una tela altrimenti candida. Tutto torna, nella coerenza di queste aporie. Così anche l’ultimo gesto può essere affidato all’indifferenza di un cane che marca il territorio proprio sull’uscio di quell’edificio senza più padrone, quando anche il fiato corto di Francis per l’allergia al pelo del migliore amico dell’uomo non è altro che un ricordo. Nessun santino, dunque, epperò neanche nessuna profanazione gratuita del mito: per un artista che ha sempre perseguito la ricerca e l’imposizione della propria identità, Cristina Portolano ha costruito un racconto che non si pone l’obiettivo della gradevolezza, e che nella sintesi necessaria delle centoventotto tavole restituisce uno stato di coscienza sempre febbrile, tra nebbie alcoliche, prodezze erotiche, bagliori di saggezza e bellezza improvvisa e inconfondibile spleen novecentesco.
Cecilia Mariani
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