Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti
di Massimo Castoldi
Donzelli, 2018
pp. 170
€ 23,00 (cartaceo)
€ 15,99 (ebook)
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Alla voce “Fascismo” dell'Enciclopedia Italiana del 1932, Giovanni Gentile definiva, insieme a Mussolini stesso, la dottrina del partito: "per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato". Se nell'ottica del totalitarismo l'individualità deve essere soppressa in favore di una totale adesione ai valori dello Stato, e lo Stato coincide con il fascismo, se ne evince immediatamente l'importanza politica della colonizzazione del pensiero, dell'imposizione di precisi modelli culturali, del controllo sulla formazione dei giovani. I bambini, i piccoli Balilla, sarebbero diventati i combattenti di domani, e dovevano quindi essere preparati a dovere, fuori e dentro le aule scolastiche: "le normative fasciste vedevano [...] nella scuola lo strumento primo di formazione del cittadino fascista, nazionalista e soldato, sprezzante della vita propria e altrui, con l'azzeramento di ogni forma di capacità critica, di sensibilità sociale, di sentimento di solidarietà umana" (pp. XIV-XV). Quella che veniva proposta era un'educazione guerriera, come recita una pubblicazione del 1935:
Non c'è [...] educazione veramente, vigorosamente nazionale, che non sia anche educazione guerriera. [...] La preparazione alla lotta armata è invero preparazione: 1) alla rinunzia più completa al proprio io particolare; [...] 2) alla rinunzia [...] anche alla propria personalità spirituale, mediante l'obbedienza pronta ed intera: poiché la lotta è azione e nulla v'ha di più dannoso e folle che discutere quando è il momento di agire". (p. XIII)
Se sui valori e le vie della propaganda fascista è stato scritto e detto molto, esiste però un aspetto inspiegabilmente trascurato, quello della scuola come luogo di resistenza, più o meno esplicita e attiva, ai tentativi di fare degli alunni dei soldatini, di riempire loro la testa con principi che non tutti i maestri condividevano.
Il volume di Massimo Castoldi si propone di indagare questo territorio poco esplorato, definendo fin da principio il perimetro della sua ricerca in una chiara introduzione metodologica: verrà raccontata la storia di dodici maestri, tutti attivi durante il Ventennio, e appartenenti a schieramenti politici differenti. Non solo dunque socialisti, ma anche cattolici, o liberali, a indicare che l'antitesi al fascismo non fu il comunismo – come molti anche oggi sembrano pensare –, bensì la democrazia in senso lato. Per lo stesso motivo, i maestri citati vengono da diverse regioni dell'Italia, perché l'opposizione fu un fenomeno molto più trasversale e diffuso di quanto non si tenda a ricordare. Di questi maestri vengono passati in rassegna i metodi, esplorati gli intenti; poco si può dire invece dei risultati, che vengono demandati a un più ampio studio di carattere sociologico ancora da farsi. In questo risiede, a mio avviso, il limite principale del volume: se nei singoli ritratti è eccellente la sezione contestualizzante, con la ricostruzione storica e l'inquadramento biografico e intellettuale dei maestri, si vorrebbe un maggior sviluppo di quella interpretativa e valutativa, che invece è scarna. È d'altronde molto difficile, se non impossibile, valutare gli effetti di una resistenza che spesso non passò attraverso proclami ufficiali, ma semplicemente attraverso la proposizione di valori opposti a quelli dominanti, come "libertà, indipendenza, solidarietà" (p. XXVII). Il maestro era una figura dominante all'interno delle comunità, soprattutto rurali, di cui poteva percepire le necessità, le contraddizioni, le tensioni sociali. Per i pochi esempi che vengono indagati nel libro, ci ricorda Castoldi, ce ne sono tanti che sono rimasti fuori per motivi legati ai criteri di selezione, e ancora di più di cui non è rimasta traccia per la fragilità delle fonti, la labilità delle testimonianze:
Il volume di Massimo Castoldi si propone di indagare questo territorio poco esplorato, definendo fin da principio il perimetro della sua ricerca in una chiara introduzione metodologica: verrà raccontata la storia di dodici maestri, tutti attivi durante il Ventennio, e appartenenti a schieramenti politici differenti. Non solo dunque socialisti, ma anche cattolici, o liberali, a indicare che l'antitesi al fascismo non fu il comunismo – come molti anche oggi sembrano pensare –, bensì la democrazia in senso lato. Per lo stesso motivo, i maestri citati vengono da diverse regioni dell'Italia, perché l'opposizione fu un fenomeno molto più trasversale e diffuso di quanto non si tenda a ricordare. Di questi maestri vengono passati in rassegna i metodi, esplorati gli intenti; poco si può dire invece dei risultati, che vengono demandati a un più ampio studio di carattere sociologico ancora da farsi. In questo risiede, a mio avviso, il limite principale del volume: se nei singoli ritratti è eccellente la sezione contestualizzante, con la ricostruzione storica e l'inquadramento biografico e intellettuale dei maestri, si vorrebbe un maggior sviluppo di quella interpretativa e valutativa, che invece è scarna. È d'altronde molto difficile, se non impossibile, valutare gli effetti di una resistenza che spesso non passò attraverso proclami ufficiali, ma semplicemente attraverso la proposizione di valori opposti a quelli dominanti, come "libertà, indipendenza, solidarietà" (p. XXVII). Il maestro era una figura dominante all'interno delle comunità, soprattutto rurali, di cui poteva percepire le necessità, le contraddizioni, le tensioni sociali. Per i pochi esempi che vengono indagati nel libro, ci ricorda Castoldi, ce ne sono tanti che sono rimasti fuori per motivi legati ai criteri di selezione, e ancora di più di cui non è rimasta traccia per la fragilità delle fonti, la labilità delle testimonianze:
Da questi primi riscontri possiamo comunque concludere che […] non si può risolvere l'antifascismo in una prospettiva univoca di politica militante. [...] Ci si oppose al fascismo anche contrastandone in modo diretto e frontale il linguaggio e i modelli culturali. (p. XXVI-XXVII)
Si pensi anche solo a quel meraviglioso laboratorio di resistenza che furono le edizioni Labor, attorno a cui ruotano molti dei nomi citati nel volume, da Fabio Maffi a Carlo Fontana, da Aurelio Castoldi a Salvatore Principato.
Per cogliere la portata della riflessione di Castoldi, diventa particolarmente interessante leggere, soprattutto con un'attenzione comparativa, le diverse storie riportate nel volume. Le vicende storiche legate all'ascesa del fascismo vengono rievocate attraverso il modo in cui hanno inciso sulle vite dei maestri. Si inizia a intravedere una rete poco conosciuta di dissenso che continuò a essere tessuta anche negli anni culminanti del Ventennio, e al tempo stesso si avvertono elementi di grande modernità, come l'aspirazione, da parte di molti dei personaggi descritti, a una scuola "umana e universale" (p. 42), che tenga conto delle esigenze dei singoli alunni e ne coltivi gli spiriti per farne buoni cittadini, ma soprattutto brave persone: un'idea, questa, alimentata e sostenuta con convinzione in un contesto che, soprattutto tra secondo Ottocento e primo Novecento, spesso era ostile all'alfabetizzazione dei bambini delle classi sociali più disagiate. O ancora le persecuzioni ai danni dei maestri dissidenti, che prima e oltre ai danni fisici, passavano attraverso la pubblica diffamazione. Questo vale soprattutto per le maestre, schierate in prima linea nell'opposizione attiva (spesso più mascherata o traversa fu quella dei colleghi maschi). Se una donna si oppone al potere, secondo una tradizione di origine antica e tristemente ancora in uso, deve essere attaccata nella sua femminilità, colpita sul piano della moralità, e la stampa fascista seguì senza remore questa via. Si veda il caso di Alda Costa, ammirata da Giorgio Bassani, che la ricorda nelle Cinque storie ferraresi:
Secondo una consuetudine tipica dei modi i fascisti di aggredire l'avversario non sui temi politici in discussione, ma nel suo privato, nella sua intimità e, nel caso di una donna nella sua femminilità, un articolo presenta alba costa come "un'attempata virago della politica, che versa i suoi sfoghi uterini settimanali in lunghe colonne de "La Scintilla", divenuta ormai il suo organo più seducente". (p. 43)
Le conseguenze dell'opposizione al regime andarono del resto spesso molto oltre la persecuzione mediatica, il licenziamento, gli arresti ripetuti e in taluni casi il confino. Il volume annota spesso casi di aggressioni fisiche, percosse violente, nei casi più drammatici anche l'assassinio, condotti dai fascisti nella più totale impunità. Emblematiche in tal senso sono le vicende di Carlo Cammeo e Salvatore Principato, veri e propri martiri del libero pensiero, collocati agli estremi fisici e cronologici del libro (Cammeo fu attirato con un pretesto fuori dall'aula dove teneva lezione e ammazzato con due colpi di pistola davanti ai suoi alunni nel 1921, Principato fucilato in piazzale Loreto nel 1944). Le loro e le altre storie vengono passate in rassegna con precisione dall’autore, che compie una minuziosa ricostruzione dei fatti noti, passando attraverso fonti di non sempre facile reperimento.
Ma quali aspetti di questo volume potrebbero con profitto essere portati in aula? Non forse il nudo testo, piuttosto gli spunti legati alle personalità e alle idee dei personaggi raccontati, esempi di coraggio e determinazione nel difendere un ideale in un quotidiano repressivo. È facile infatti che gli studenti abbiano già sentito parlare di giusti che misero a rischio la propria vita all’interno dei regimi autoritari, in Italia e non solo, difficile però che sappiano di questa lotta silenziosa, fatta di piccole attenzioni e ribellioni poco riconosciute. Per chiunque di noi abbia avuto dei buoni maestri, è lampante il peso che possono avere avuto gli insegnamenti di questi eroi, più o meno noti, ma ugualmente fondamentali nel contrastare l’ideologia fascista nel luogo in cui iniziava a porre radici e attecchire nei futuri cittadini.
Carolina Pernigo
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