Nel profondo
di Daisy Johnson
Fazi, settembre 2019
Traduzione di Stefano Tummolini
pp. 276
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Non è stata per niente facile la lettura di Nel profondo, romanzo d’esordio della giovanissima Daisy Johnson e non è facile nemmeno cercare di scriverne.
Ho sentimenti e giudizi ambivalenti su quest’opera che da una parte affascina per la forza della scrittura, la ricchezza di tematiche e immagini, la scelta di confrontarsi con argomenti complessi alcuni dei quali considerati tabù e poco esplorati in letteratura, ma dall’altra risulta anche troppo intricato, strabordante di riferimenti e spunti, a tratti difficile da seguire. È un vero peccato, perché la storia ha davvero del potenziale e la scrittura di Johnson – la più giovane autrice a entrare nella short list del Man Booker Prize – ha qualcosa di miracoloso, perturbante: idea e scrittura ci sono, quindi, e la guida di un editor (a monte, nulla da dire sullo straordinario lavoro di traduzione di Stefano Tummolini per l’edizione italiana del romanzo) capace di incanalarle in modo appropriato avrebbe sicuramente fatto la differenza. Un romanzo complesso, in cui l’autrice sembra aver riversato tutto il proprio immaginario e sentire, con una sovrabbondanza di tematiche e spunti, salti temporali e personaggi, dai quali è facile restare sopraffatti perdendo di vista ciò che davvero è importante. Eppure.
Come dicevo all’inizio, ho sentimenti ambivalenti nei confronti di questa storia. La scrittura di Johnson è inquietante, spietata, precisa. Meravigliosa, semplicemente. E strega il lettore, che ne resta ammaliato nonostante tutto e si ritrova dentro la storia di Gretel e sua madre, la donna che tanti anni prima l’ha abbandonata: Sarah, madre terribile e amatissima, che l’ha cresciuta ai margini del mondo, libera e selvaggia e che poi, improvvisamente se n’è andata, portando via con sé un milione di domande senza risposta e segreti con cui oggi fare i conti potrebbe distruggere entrambe. Ma la donna che trova è lei e non è più lei, schiacciata da una demenza che le porta via ogni giorno qualcosa di sé, le parole, i ricordi, le verità sepolte:
E in quei momenti, mentre mi parlavi, sembravi tornata quella di un tempo, come se nulla fosse cambiato. Come se sapessi tutta la storia. Vivevo con terrore quei momenti di lucidità, sapendo che non sarebbero durati a lungo. (p. 228)
Alle vite di Gretel e Sarah si intrecciano quelle di altri personaggi che, in misura diversa, giocano un ruolo nella tragedia che si va delineando: l’uomo che non è il padre di Gretel e che fa parte di un passato di cui lei non sa nulla con il suo carico di altri segreti e bugie, Marcus il giovane solitario che si ritrova a vivere con loro nella barca sul fiume per un periodo brevissimo ma che segnerà tutti per sempre, gli stessi genitori di lui che del figlio hanno perso traccia da tempo, Fiona la custode di parole mai confessate prima e, forse, colpevole più di altri nell’indicare la direzione che gli eventi hanno preso tanto tempo prima.
Una storia intricata, oscura, che si nutre di silenzi, paure ancestrali portate dal fiume intorno cui tutto gravita, a cui tutto ritorna. Paure a cui dare un nome e una forma, il Bonak, creatura reale o immaginaria poco importa, perché i mostri veri sono dentro di noi. Sono «nel profondo» della nostra anima, dove si celano i segreti e le pulsioni più oscure, i rimorsi e le ombre di un passato che ha condizionato – e contaminato, direi – ogni cosa. Da cui è impossibile fuggire e, forse, perfino salvarsi.
Johnson scava nelle pieghe più oscure dell’animo umano e attraverso una lingua spietata, inquietante, dura a tratti ma completamente onesta e puntualissima, non ha paura di infrangere tabù e raccontare anche ciò che per molti resta inenarrabile. A partire dal rapporto complicato fra Gretel e Sarah: c’è una madre che abbandona la figlia sedicenne e fa perdere le sue tracce, ci sono verità che non ha mai voluto raccontare, e un mondo intero creato per loro due soltanto, perfino con una lingua inventata per arricchire quella che possedevano, adattarsi alla loro realtà, isolandosi dal resto anche nelle parole.
A volte si insinua nei discorsi una parola del passato, e ne restiamo annientate. È come se il tempo non fosse mai trascorso, come se non avesse avuto peso. Torniamo a quando avevo tredici anni e tu eri ancora mia madre, terribile e meravigliosa. Torniamo in quella barca sul fiume a parlare in una lingua che nessun altro conosce. Una lingua che è soltanto nostra. (p. 15)
La complicità tra le due a tratti è totale, l’attimo dopo Sarah si fa distante, misteriosa, indomabile. Quella lingua, nel tempo dimenticata dalla Gretel adulta tra i cui ricordi affiora di tanto in tanto solo qualche parola, contribuiva a costruire il loro mondo e a isolarle dal resto, in un rapporto esclusivo e respingente nei confronti degli altri, della realtà, della vita adulta stessa che un giorno, prima o poi, sarebbe arrivata a chiedere il conto:
[…] mi resi conto all’improvviso di quello che avevi fatto, inventando e insegnandomi una lingua tutta tua. Eravamo come degli alieni. Come gli ultimi sopravvissuti sulla terra. Se in qualche modo è vero che il linguaggio influenza il nostro modo di pensare, non avrei mai potuto essere diversa da com’ero. E la lingua che avevo imparato fin da piccola, non la parlava nessun altro. Quindi sarei rimasta sempre emarginata, sola, e a disagio con gli altri. Era la mia lingua a imporlo. La lingua che mi avevi insegnato tu. (p. 144)
Sono numerose, nel romanzo, le riflessioni sul potere del linguaggio, in una storia stessa in cui la parola scelta è tanto centrale e capace di miracoli. La parola crea e distrugge mondi, quando la verità – o ciò che crediamo essere tale – si svela. Ma la parola contribuisce anche a inventare e riconoscere l’identità, un altro tema centrale di questa storia: ciò che siamo, il nome con cui ci chiamiamo, il sostantivo che ci definisce. Madre, padre, donna, uomo. C’è un passaggio, molto bello, in cui Margot si spoglia della propria identità per assumerne una nuova e nel momento in cui la parola, il nome, prende forma così pure l’identità stessa diventa reale:
Sentì che Margot se ne stava andando. Si fermò ammutolita sul sentiero, e si piegò in due. Di colpo provò un dolore fortissimo per quello che aveva perso, che s’era lasciata alle spalle, e non avrebbe nominato mai più. Si chiamava Marcus. Non ricordava chi fossero i suoi genitori. Camminava lungo il canale. Non aveva incontrato nessuno. Non aveva parlato con nessuno. (p. 133)
Identità, parola, rapporto genitori e figli, maternità – sempre sofferta, negata, rifiutata – , vecchiaia, malattia, perdita. E radici, luoghi che in qualche modo ci rappresentano e a cui tornare, almeno per tentare di comprendere:
I luoghi dove siamo nati ritornano. Si travestono da emicranie, mal di stomaco, insonnia. Sono la sensazione di cadere con cui a volte ci svegliamo, brancolando in cerca della luce, certi che tutto ciò che abbiamo costruito sia scomparso nella notte. I luoghi dove siamo nati ci diventano estranei. Non ci riconoscono più, anche se noi li riconosceremo per sempre. Ci sono cresciuti dentro, sono il nostro midollo. Se ci rovesciassero come un guanto, troverebbero delle mappe incise dietro la pelle. Servono proprio a ritrovare la strada di casa. Solo che dietro la mia pelle non ci sono canali, binari ferroviari e una barca, ma sempre e solo tu. (p. 11, incipit)
Sulle tracce della madre, Gretel è sé stessa che disperatamente cerca, è un senso in quell’infanzia stranissima, non infelice, almeno non del tutto. Trovare Sarah non restituirà gli anni trascorsi senza di lei, non cancellerà colpe e dolore, ma forse renderà tutto più chiaro se non accettabile.
Il passato non è un filo che ci lasciamo alle spalle, ma un’ancora. È per questo che ho continuato a cercarti tutti quegli anni, Sarah. Non per avere risposte, o farmi compatire; non per darti la colpa o metterti con le spalle al muro. Ma perché – tanto tempo fa – eri mia madre, e te ne sei andata. (p. 22)
«Eri mia madre e te ne sei andata», la brutalità del gesto resa con altrettanta brutalità sulla pagina, con parole schiette, prive di ogni inutile orpello e lirismo.
Un romanzo dai molteplici spunti, quindi, ricchissimo di temi, richiami al folklore e al mito, in cui addentrarsi è difficile, la storia non scorre lineare e priva di inciampi, eppure in qualche modo strega – l’unico termine possibile da utilizzare per tentare di spiegarne la fascinazione – grazie a una scrittura tanto spietata quanto efficace. A Johnson il plauso per saper piegare la parola con tanta maestria e, ancora, non aver timore di addentrarsi “nel profondo”, nelle zone più oscure e inesplorate dell’animo umano e scardinare gli ultimi tabù rimasti.
Debora Lambruschini