Parole di scuola di Mariapia Veladiano Guanda, 5 settembre 2019 pp. € 14 (cartaceo) € 7,99 (ebook) CLICCA QUI PER COMPRARE IL LIBRO |
Prima dell'inizio dell'anno scolastico è arrivata in libreria per Guanda una nuova edizione di Parole di scuola, in cui Mariapia Veladiano tratta dell'immediata necessità che abbiamo di ripristinare e alimentare un uso lessicale ricco. Avere meno parole equivale ad avere meno pensiero; davanti, invece, a una buona padronanza della nostra lingua, ci si può avvalere del potere delle parole, che è potentissimo. Una parola può addirittura trasformare la vita, come dimostra l'autrice.
Mariapia Veladiano sceglie alcune parole che ha visto sfilare - talvolta con noncuranza - nella scuola, prima da insegnante e poi da preside. Un esempio? Meglio parlare di integrazione anziché di inclusione; abolire dalle classi la competizione o la meritocrazia, deleterie nel contesto scolastico e diffuse, invece, in quella scuola-azienda che tanto non piace all'autrice (e a gran parte degli insegnanti!).
Nelle aule c'è tanto spazio per la timidezza e la paura, e non solo da parte dei ragazzi; questi sentimenti andrebbero invece sostituiti con la fiducia, parola ricorrente nel saggio di Veladiano e vero mattone che permette di costruire un rapporto solido tra insegnanti, allievi e famiglie.
Al di là delle parole che esprimono a fondo l'idea di educazione al rispetto reciproco e portano avanti la lotta contro gli stereotipi, si incontrano anche parole legate alla scuola come edificio: le biblioteche, ad esempio, ricorrono nel libro (e anche nella nostra intervista), perché sono un luogo non solo reale, ma anche uno spazio della mente, dell'evasione, dove si può alimentare il gusto per la scoperta.
Vista l'estrema attualità del saggio e i tanti spunti da approfondire, nonché la sua esperienza come insegnante, preside e scrittrice, abbiamo pensato di intervistare Mariapia Veladiano.
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“La lingua povera e duale prepara la guerra, perché costringe a stare di qua o di là, un mondo in cui la radicalizzazione è la regola. È il mondo in guerra. Meno parole vuol dire meno pensiero. Slogan al posto dell’argomentare. Convinzione al posto di ascolto” leggiamo a pagina 22: come possiamo tornare a rendere interessante l’arricchimento lessicale per chi invece è convinto che 1000 lemmi bastino e avanzino per vivere?
Serve l’esposizione alla buona lingua, ricca, che permetta di pensare e argomentare. Non ci sono scorciatoie. Non si sa dove cercarla oggi questa lingua generosa sul piano del lessico e della sintassi e piena di sfumature. Televisione, riviste, social esibiscono una povertà linguistica che si è affermata progressivamente come inevitabile. Se si legge solo quello che è breve e colpisce l’emotività o la curiosità, allora si deve trovare l’espressione che sorprende, l’affermazione più che l’argomentazione. Storicamente è spesso esistita una lingua comune accanto a una più come dire “alta”. La novità è che anche il luogo per eccellenza del confronto, che è la politica, spesso oggi si accomoda su questa lingua povera e assertiva. In questo momento la scuola è un luogo di resistenza linguistica (e anche etica e civile). Ha l’immenso compito di coltivare le parole, proporre libri e giornali che offrono pensiero e argomentazione. Per esposizione alla buona lingua si imparerà di nuovo a parlare e argomentare.
Cosa possiamo fare per incoraggiare questo?
Foto di ©Sonia Gastaldi |
Nel mio piccolo, ho promosso la creazione di una biblioteca in ogni scuola in cui sono stata abbastanza a lungo. E poi tutti coloro che sono consapevoli di quel che sta capitando devono in ogni momento cercare di parlare in modo appropriato, non cedere alla semplificazione, far risuonare la bellezza di un ragionamento. Semplice, lineare, ma un ragionamento e non uno slogan. Difficile, lo so.
L’insegnamento a scuola non è più prestigioso, ma spesso è anche poco dignitoso, come sottolinea più volte nel testo. Perché sarebbe importante avere all’interno del corpus docenti maggiore equilibrio nel numero di uomini e donne in cattedra?
In Italia è considerato poco dignitoso il lavoro del docente perché la nostra società valuta i lavori sulla base del guadagno. Questo non capita assolutamente all’estero, dove l’insegnamento è una professione riconosciuta come socialmente fondamentale e retribuita di conseguenza. In realtà da noi c’è stata anche un’operazione di inquinamento dell’immagine del docente dovuta al fatto che la scuola è stata al centro di continue manovre demagogiche da parte della politica. Le riforme successive hanno di volta in volta inseguito gli umori della società: più severità nella condotta, più direttività nei presidi, più inglese, più impresa, più informatica. Tutto in disordine, facendo e disfacendo. Da molti anni la scuola non riesce a presentarsi con tutta la sua ricchezza alla società, che pure ancora ha grande fiducia negli insegnanti. Molto più che nei politici! Il lavoro di scuola è soprattutto femminile perché in Italia i lavori poco pagati e che non offrono carriera diventano progressivamente femminili, vengono abbandonati dai maschi. E poi questo è parte del problema generale che in Italia vede il potere legato al genere maschile. La scuola non è luogo di potere e allora la si lascia alle donne. Non va bene, evidentemente, semplicemente perché alla formazione serve il mondo intero non una sua selezione. Comunque la scuola che funziona c’è e senza averlo cercato, il merito per ora è delle donne. Mi preoccuperei di più dell’eccessiva presenza degli uomini in politica, visti i risultati.
«Il mondo affettivo e sessuale dei figli è misterioso, è cambiato come è cambiato con pari sofferenza e scandalo negli anni Sessanta del secolo scorso e prima ancora negli anni Venti» (p. 36). Cosa può fare la scuola per mediare tra studenti e genitori, senza suscitare allarmismi?
La scuola lo sa fare il suo lavoro. Non ha paura delle parole e delle trasformazioni anche perché ha i ragazzi intorno per molte più ore di quanto li abbiano a casa i genitori e per molto tempo e tutti insieme. Può osservare e aiutare a riflettere. Il problema è quando un tema viene preso di mira dalla politica che lo strumentalizza e le famiglie per paura, una paura coltivata strumentalmente qualche volta proprio per fini di consenso politico, toglie alla scuola il rapporto di fiducia. La scuola vive una fiducia sospettosa, oggi, da parte delle famiglie. Non perché sia peggiore di un tempo, ma perché il sospetto è spaventosamente in crescita nella nostra società, a tutti i livelli. Un po’ scherzando ma non troppo, dico sempre che a scuola dobbiamo adottare i genitori, insieme ai ragazzi.
In un presente che spinge spesso verso l’individualismo e la competizione, quanto è importante l’empatia?
Tanto, perché la scuola vive di rapporti e senza empatia non c’è rapporto, c’è solo la formalità di una relazione, il bon ton d’aula. Ma l’empatia è un sentimento esiliato dalla nostra cultura politica e questo ha effetti a cascata sulla società. Una legittimazione del far parte a sé, uno contro tutti. E poi c’è la distanza emotiva creata dai social. Lì i ragazzi possono pronunciare parole che non pronuncerebbero mai di persona, anche solo perché ci si vergogna o perché si ha paura. A volte ci si chiede come sia possibile ma ragazzi interrogati per forme di bullismo verso i compagni possono benissimo rispondere: “E allora? Avevo voglia di farlo e l’ho fatto”. Ma manca di empatia anche la classe che non prende le parti giuste. O la didattica difensiva, quella di chi non si lascia coinvolgere per timore delle denunce o semplicemente dell’aggressività dei genitori. La relazione educativa è empatica necessariamente e il governo del sentimento è in capo al docente che mette i confini e che usa la propria maturità per volgere l’empatia a favore della crescita dello studente. È una straordinaria esperienza umana, l’insegnamento.
Come ricorda nel libro, le aule sono piene di emozioni. Lasciamo da parte quelle negative, come la paura o la rabbia. Ci vuole raccontare un episodio vissuto in aula che ancora la commuove o la fa ridere?
Una giovane bella ragazza biondissima, sempre vestita di nero e con gli anfibi ai piedi. Da preside, la trovo in giardino che piange sulle spalle di una compagna. Mi impressiona, ero così abituata a vederla dura, tutta d’un pezzo. Anche molto aggressiva nelle risposte. Le chiedo e mi dice che il suo ragazzo l’ha tradita con un’altra e lui dice che è normale alla loro età e che vuole stare insieme anche a lei. Nella discussione aveva anche alzato le mani. Sa, un brivido lungo la schiena mi è venuto. Queste ragazze così libere rispetto a noi e così poco consapevoli della loro dignità. Le ho detto che non conosco ricette per l’amore, ma due regole sì: mai violenza, la prima è già di troppo, e poi uno alla volta. L’amore eterno può non esistere, ma uno alla volta è rispetto. Il giorno dopo ho trovato in ufficio un bigliettino piccolo piccolo: “L’ho lasciato”. Alleluia.
Quanto è importante chiamare gli studenti per nome? E imparare a pronunciare correttamente i nomi in lingue che non si conoscono?
Il nostro nome ci ha accompagnato nella vita e disegnato il nostro carattere. Essere stati chiamati milioni di volte Chiara, Pietro, Francesco, Soufiane, Alem. Il suono del nome e l’eco del suo significato e la storia di cui è carico sono parte di noi. Come si fa a non chiamare per nome? C’è chi dice che usare il cognome serve a mantenere il distacco, ma si torna al discorso di prima. L’empatia va governata non bandita. Aver cura nel pronunciare i nomi che non appartengono alla nostra cultura vuol dire riconoscere il ragazzo o la ragazza. È un’occasione per farsi raccontare il significato del nome. Chi lo ha scelto e perché. Lo sa che a volte arrivano fratelli con cognome e nome invertiti? Errori di trascrizione al momento della registrazione in Italia. Ma sono difficilissimi da correggere. Tipo, Paolo Incantato dove Incantato è il cognome e poi il fratello Incantato Pietro dove Incantato è il nome. È successo, lo racconto nel libro, con due fratelli immigrati in due momenti diversi dell’anno scolastico. Non siamo riusciti a rimediare.
Visto il bel percorso tra le parole della scuola che ha strutturato nel suo libro, quali sono le tre “parole” fondamentali per vivere bene l’insegnamento oggi? E perché?
Cortesia, che non è il bon ton. È riconoscere che l’altro vale e ha la nostra attenzione. La cortesia scioglie i conflitti attraverso il riconoscimento.
Libertà. Di insegnamento e di pensiero. Non è scontato. Essere liberi oggi è difficilissimo e i ragazzi non lo sanno abbastanza.
E poi felicità. Cercare niente che sia meno della felicità, a scuola. Per tutti, perché che felicità è se si fonda sull’infelicità degli altri?
Infine, una domanda che poniamo a tutti i partecipanti a questa rubrica #SpecialeSCUOLA: se avesse il potere di cambiare una cosa della scuola italiana con uno schiocco di dita, cosa sceglierebbe? E perché?
Guardi, le relazioni vanno curate, il reclutamento dei docenti richiede un percorso di revisione lungo e un progetto. C’è invece qualcosa che si può fare e basta: costruire scuole belle. Edifici luminosi, grandi spazi, semplicità, tanto verde intorno, una biblioteca per ogni scuola. La simbolica degli spazi racconta l’interesse che la società ha per la scuola. Cominciamo con il mostrare ai ragazzi che alla scuola teniamo moltissimo. Poi, in un ambiente bello e curato, è anche più facile lavorare bene, con meno stress. Ci si viene volentieri, da studenti e da docenti. Poi c’è tutto il resto, ma questo sarebbe uno splendido aiuto.
Ringraziamo Mariapia Veladiano per la straordinaria disponibilità e vi ricordiamo che Parole di scuola è già in libreria (potete anche trovarlo cliccando qui)
Intervista a cura di Gloria M. Ghioni