Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque Neri Pozza, 2016 pp. 207 € 12 (cartaceo) € 7,99 (ebook) CLICCA QUI PER COMPRARE IL LIBRO |
Di Kantorek ve n’erano migliaia, convinti tutti di agire per il meglio nel modo che gli era più comodo. Ma qui appunto sta il loro fallimento. Dovevano essere per noi diciottenni tutori e guide all'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma, all’avvenire. Noi […] credevamo a ciò che ci dicevano. Al concetto dell’autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un’idea di maggior saggezza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro, che ci sorpassavano soltanto nelle frasi e nell'astuzia. Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e fece crollare la concezione del mondo che ci avevano insegnato. Mentre loro continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi; mentre esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore della morte è più forte. Non per questo diventammo ribelli, disertori, vigliacchi – espressioni tutte che quelli maneggiavano con tanta facilità –, noi amavamo la patria quanto loro, e a ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo a un tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventosamente, ci sentimmo soli, e da soli dovevamo sbrigarcela. (p. 15-16)
L'eredità del conflitto è la fine della giovinezza ("la nostra gioventù se n’è andata da un pezzo. Noi siamo gente vecchia", p. 19) e delle illusioni del passato, ma anche di tutte le speranze per il futuro, che pur desiderato si spalanca dinnanzi in una desolante mancanza di senso.
«Quando ci penso, Albert» dico io, dopo un po', sdraiandomi sulla schiena, «vorrei, quando sento parlare di pace, che se fosse davvero così, vorrei fare qualcosa di straordinario, e il solo pensiero mi dà alla testa. Qualcosa, capisci, per cui valga la pena essere stati qui, tanto tempo nel fango. Ma non riesco a immaginare niente. Quello che mi sembra possibile – professione, studi, stipendio, eccetera – mi dà la nausea: tutta roba che c'era già prima, ne ho schifo. Non trovo nulla, Albert».
E improvvisamente tutto ciò mi sembra così vuoto e desolante. […] Siamo d'accordo che è così per tutti: per tutti quelli, ovunque nel mondo, che siano nelle nostre condizioni, un po' più, un po' meno. È il destino comune della nostra generazione.
Albert sintetizza il tutto: «La guerra ci ha guastati per sempre».
Ha ragione: non siamo più giovani, non ci interessa più dare l’assalto al mondo. Siamo dei profughi, fuggiamo da noi stessi. Avevamo diciott'anni, e cominciavamo ad amare il mondo e l'esistenza: ci hanno costretti a spararle contro. La prima granata ci ha colpiti al cuore. Siamo esclusi ormai dall'attività, dal lavoro, dal progresso, non ci crediamo più. Crediamo alla guerra. (p. 67-68)
Quella che viene descritta è un'esistenza dominata dal caso e dalla violenza, ben più che dal merito. In un narrare che procede vivido, quasi cinematografico per la capacità di illuminare singoli dettagli nel quadro d'insieme, si vede distintamente la capacità della guerra di disumanizzare il soldato al fronte, di renderlo un automa cieco e sordo, che può essere scagliato contro il nemico, o una bestia guidata dal puro istinto di sopravvivenza.
Oh quel ritornare all'attacco! Si è giunti al riparo nelle posizioni di riserva, si vorrebbe penetrarvi carponi, sparire; e invece bisogna girarsi e ritornare indietro, nell'orrore! Se in questo momento non fossimo degli automi, rimarremmo sdraiati, esauriti, privi di volontà. Invece siamo trascinati nuovamente in avanti, privi di volontà eppure selvaggi folli e furiosi; vogliamo uccidere poiché quelli di là sono ora i nostri nemici mortali, e i loro fucili, le loro granate sono diretti contro di noi, e se non li sterminiamo, stermineranno noi.
La bruna terra, la terra rotta, scheggiata e scura con i suoi riflessi grassi sotto il sole, è lo sfondo di questo incessante, sordo automatismo, di cui il nostro ansimare misura il ritmo quasi meccanico; le labbra sono secche, la testa più confusa che dopo una notte di orge. Brancoliamo così in avanti, mentre nelle nostre anime squarciate e ferite anch'esse si imprime penosamente il quadro indelebile della terra bruna e grassa sotto il sole, dei soldati rantolanti o morti che giacciono lì come se fosse ineluttabile e ci afferrano per le gambe e gridano, mentre noi li oltrepassiamo correndo. Abbiamo perso ogni compassione, siamo l’uno per l’altro degli sconosciuti, anche quando l’immagine dell’altro cade nel nostro sguardo di animali braccati. La nostra anima è morta e noi, per qualche incantesimo pericolosamente malvagio, sappiamo ancora correre e uccidere. (p. 86-87)
La tentazione, di fronte al sentimento di sradicamento e non appartenenza, che fa sembrare anche la memoria della quiete passata una pura fantasia – qualcosa di irriducibilmente lontano nel tempo e nello spazio, è quella del cedimento, dell'abbandono:
Oggi, nel paesaggio della nostra giovinezza, andremo in giro come viaggiatori di passaggio. Gli eventi ci hanno consumati [...]. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Saremmo lì, ma sapremmo viverci? Abbandonati come bambini, disillusi come anziani, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti. (p. 92)
Quasi straziante risulta, per noi che ci crediamo ancora perché nulla è arrivato a lacerare le nostre fiduciose certezze, l'appello di Paul – tornato a casa per una licenza – ai suoi libri, perché tornino a parlargli, a rivelargli cose sul mondo, a comunicargli qualche forma di verità, "l'impazienza dell'avvenire, l'alata gioia di fronte al mondo del pensiero, [...] il perduto slancio della mia giovinezza" (p. 126). Solo che i libri restano muti, negandogli ogni speranza. E il lessico si fa significativo: lui si sente "estraneo", “escluso”, “condannato”, e si aggrappa alla sua unica sicurezza: "Sono un soldato".
La resa viene combattuta insieme ai compagni, lottando fianco a fianco, giorno per giorno. I giovani soldati si oppongono così a tutto ciò che vuole annichilirli e l'umanità sopravvive, nell'empatia, nel cameratismo, nel senso di fratellanza che il conflitto genera, in un vorace, disperato, attaccamento alla vita, alla concretezza delle piccole preoccupazioni quotidiane. Insieme si affrontano la presa di coscienza dell'insensatezza di una guerra decisa dall'alto, il dolore, la paura; in goliardate e grandi abbuffate si può anche ritrovare il sorriso, astrarsi per un attimo dalla durezza delle trincee. Eppure nulla di tutto ciò basta. Per quella che è stata una tragedia sotto ogni aspetto, non può esistere attenuazione, edulcorazione, neanche nella finzione narrativa. Ecco perché il romanzo di Remarque continua a ferire il lettore come una lama: perché, nei fatti, racconta di un gruppo di ragazzi di diciannove anni che, partiti da una stessa classe di scuola, sono andati a fare la guerra e ne sono stati distrutti.
Le parole studiate sui libri, a proposito del primo conflitto mondiale, acquistano tra le pagine uno spessore inedito, rivelando con l'impatto di una deflagrazione una barbarie prima solo intuita. E il fatto che i protagonisti siano soldati tedeschi permette di guardare al tema in una prospettiva nuova, che ridefinisce e attenua la rigida dicotomia tra buoni e cattivi, ragioni giuste e sbagliate, per accentuare piuttosto quella tra i pochi che la guerra l'hanno voluta e sostenuta fino alla fine e i molti che hanno dovuto combatterla. Intorno a questo ruota il pensiero dell'autore stesso, a sua volta attivo sul fronte occidentale: l'idea, ritornante, martellante come un filo conduttore o un chiodo fisso, di una gioventù travolta e senza più speranze, morta fuori e dentro nelle trincee della prima guerra mondiale.
Io sono giovane, ho vent'anni, ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore, e la insensata superficialità unita a un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo. E con me lo vedono tutti gli altri uomini della mia età, da questa parte e da quell'altra del fronte, in tutto il mondo. Lo vede e lo vive la mia generazione. Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a chiedere conto? Che cosa si aspettano da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per anni e anni la nostra occupazione è stata quella di uccidere; è stata la nostra prima professione nella vita. Il nostro sapere della vita si limita alla morte. Che accadrà dopo? Che ne sarà di noi? (p. 187)
Carolina Pernigo
Edizione di riferimento: Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, trad. di Stefano Jacini (aggiornamento e revisione della traduzione di Wolfgango della Croce), Vicenza, Neri Pozza, 2016.
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