Potere alle parole di Vera Gheno Einaudi, 10 settembre 2019 pp. 176 € 13 (cartaceo) € 7,99 (ebook) CLICCA QUI PER COMPRARE IL LIBRO |
Con l'inizio della scuola si tornerà a parlare, tra le altre cose, di lessico e grammatica: gioia e dolori di insegnanti e studenti, è fondamentale padroneggiare la nostra lingua, scegliere i termini giusti, strutturare periodi efficaci,... Per non lasciarci schiacciare dal prescrittivismo e scoprire invece la bellezza della nostra lingua e della nostra grammatica, ricordandoci che la "norma" è anzitutto quel che ci permette di comunicare facilmente e in modo efficiente con gli altri, è appena uscito in libreria per Einaudi Potere alle parole, il nuovo libro di Vera Gheno, sociolinguista che abbiamo già in precedenza ospitato nella rubrica #SpecialeSCUOLA per l'utile volume scritto con Bruno Mastroianni, Tienilo acceso (Longanesi).
Muovendo dalla definizione di "lingua" e analizzando la straordinaria storia dell'italiano, questo agile volumetto ci porta a indagare i tanto discussi concetti di giusto/sbagliato, toccando il campo delle zone grigie, spesso oggetto di vivaci dibattiti online sulla correttezza o meno delle parole che vi appartengono. Molto interessante è anche il capitolo dedicato a come l'italiano si espande, per non parlare della sezione in chiusura, che dà il titolo al libro, e che ha per obiettivo restituire alle parole il loro potere, attraverso consigli d'uso sacrosanti, preziosissimi sia per insegnanti, sia per studenti, sia per i parlanti che non vogliono soffermarsi all'uso pedissequo della lingua italiana, ma che puntano a migliorare la propria comunicazione.
Ringraziamo Vera Gheno per la sua disponibilità a parlarci del potere delle parole.
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Le parole non si limitano a definire o a descrivere, ma raccontano anche il mondo in cui ci troviamo e il nostro modo di guardarlo. Vuole spiegarci questo concetto, ricorrente nell’opera?
Dato che le parole non provengono “dall’alto”, non ci sono state donate da una divinità o da qualche essere superiore, ma le inventiamo noi, esseri umani, la loro creazione dipende anche da quello che noi “vediamo” della realtà che ci circonda. Questo è uno dei motivi per cui una lingua viva continua a inventare parole nuove (mentre altre parole, che per qualche motivo non sono più ritenute utili, piano piano muoiono): ognuno di noi ha la possibilità di notare, nella realtà, un nuovo particolare che fino a quel momento non era stato ritenuto degno di un nome da altri. Per esempio, il famoso aggettivo petaloso coniato nel 2016 da Matteo di Copparo, che all’epoca dei fatti aveva otto anni: lui, nella sua visione della realtà, aveva sentito il bisogno di un aggettivo sintetico per definire un fiore ricco di petali; un concetto in realtà semplicissimo, ma su cui evidentemente nessuno aveva ritenuto rilevante soffermarsi il tempo di creare una parola ad hoc. Al di là del fatto che gli eschimesi non hanno cinquanta nomi per chiamare la neve, è sicuramente vero che le lingue di popoli che vivono in luoghi dove con la neve si convive più che da noi hanno più nomi per chiamarla, in modo da distinguere la neve farinosa da quella bagnata, la neve ghiacciata da quella in via di scioglimento, quella su cui si può camminare da quella pericolosa ecc. Loro sono costretti dalle circostanze a vedere qualcosa di più che semplicemente “neve”, e la lingua tiene conto di questo sguardo diverso dal nostro.
Per molti anni a scuola e in famiglia si è fortemente sconsigliato di parlare dialetto. Il dialetto è una minaccia per le competenze e l’uso corretto della lingua italiana?
Dato che la competenza linguistica si forma per aggiunta e non per sostituzione, no. Lo stigma nasce dal fatto di temere che i propri figli fossero svantaggiati in quanto dialettofoni, per cui per molti anni si è pensato di estirpare letteralmente il dialetto per sostituirlo con l’italiano. In realtà, siccome la vera ricchezza è sapersi muovere tra livelli differenti di uso della lingua o delle lingue conosciute, occorre solo imparare a distinguere tra contesti in cui va benissimo parlare dialetto e altri in cui è doveroso parlare la lingua nazionale. Ma non perché il dialetto sia meno bello o importante della lingua, piuttosto per una questione di comprensibilità. Invito tutti a fare una prova: pensare una parola del proprio dialetto che non ha corrispettivo in italiano. Succede più spesso di quanto si pensi, perché in fondo ogni lingua che conosciamo è come se ci dotasse di un paio di occhiali che ci fa vedere la realtà in modo un po’ differente. E su alcuni concetti il dialetto ha una precisione semantica imbattibile.
Un tempo a scuola erano in pochissimi a mettere in dubbio una regola di grammatica; si imparava e si applicava. Adesso, in cui tutto viene messo in discussione (e non è detto che questo sia necessariamente un male), cosa risponderebbe a un ragazzo che davanti alla consegna “devi fare così”, replicasse: “chi l’ha detto?”?
Un tempo, chi aveva la possibilità di studiare faceva parte di una fortunata minoranza. Adesso che studiano tutti, e si è allargato anche il discorso pubblico sulla lingua (cioè si discute molto, e non solo a livello specialistico, di questioni linguistiche), succedono continuamente episodi del genere. Quindi al ragazzo risponderei che lo dicono le grammatiche, che contengono una sorta di sedimentazione della conoscenza linguistica desunta fondamentalmente dall’uso dei parlanti di una lingua, e che, in primo luogo, adeguarsi alla norma è il modo più semplice per essere capiti dagli altri e anche di capire gli altri, ossia di essere efficaci, nonché di evitare giudizi di ignoranza (perché si dice tanto che la forma linguistica non sia molto rilevante, oggigiorno, poi siamo felicissimi di cogliere in castagna il prossimo al primo “pò” e tacciarlo di incultura); in secondo luogo, qualora nel ragazzo albergasse il classico spirito di trasgressione tipico di qualsiasi giovane (c’è una lunga fase della nostra vita in cui vogliamo contrapporci ai nostri genitori e maestri), gli chiarirei che si possono trasgredire le regole solo conoscendole; altrimenti non è trasgressione, è ignoranza.
A scuola solitamente ci dicono si scrive / non si scrive, non abbiamo modo e tempo per approfondire perché ci sia quella norma linguistica e da dove derivi. Può essere utile mostrare ai ragazzi anche questi aspetti, con un approccio meno prescrittivo e più descrittivo, quasi da linguista, o il tutto rischierebbe di creare confusione?
Io penso che ce ne sia sempre più bisogno perché l’addestramento a una norma rigidamente scolastica non ha, mi pare, dato i frutti sperati. È molto diffuso un disagio generalizzato nei confronti dell’uso della propria lingua madre che deriva, a mio avviso, dalla distanza tra la lingua imparata a scuola (la lingua dell’egli si è recato) e quella “della strada” (la lingua del lui è andato). Nel mezzo, sono poco conosciute e frequentate solo con mille incertezze tutte le varietà linguistiche intermedie, per esempio quelle che ci servono per interagire con un giudice in tribunale o per scrivere un curriculum ineccepibile. In quale modo infragiliti da questa “forbice” tra scritto quasi aulico e parlato quasi substandard, ci appoggiamo poi a esoscheletri come l’inglese o il burocratese. Penso invece che sia necessario ragionare sulla mobilità di registro anche a scuola, così come sulla scala di grigi che caratterizza di fatto quasi regola grammaticale. Insomma, meno divieti, più ragionamento. Le varie grammatiche scolastiche con le quali ho collaborato negli ultimi anni mi sembrano decisamente andare in quella direzione.
Nel suo libro fa riferimento al rischio di essere ridicolizzati e/o esclusi da adulti per l’uso scorretto o pressapochista che si fa della lingua. Nelle scuole però vediamo (o abbiamo vissuto in prima persona) un’esperienza un po’ contraria: tanti ragazzi, pur padroneggiando un lessico più vasto, semplificano il loro eloquio fino alla banalizzazione perché temono di essere presi in giro dai compagni. Cosa suggerirebbe a questi ragazzi?
Io non ho questa esperienza così massiccia di ragazzi che si “autobanalizzano”. Chiaramente, da giovani dipendiamo molto dal giudizio dei pari, per cui tenderemo a conformarci a quello che è percepito come “comportamento linguistico normale”. Prima di accettare la propria stranezza, deve passare del tempo: lo dico per esperienza diretta, dato che io ero sempre “quella strana”. Solo da grande ho capito che alla fine di tutto strano è bello. Detto questo, sicuramente i giovani d’oggi hanno mille motivi di disagio, forse anche più di chi oggi è adulto, ma non sono più banali delle generazioni precedenti, anzi. Magari, come sempre i giovani sono poco pregnanti in quei settori della lingua che interessano invece a noi adulti (che so, la politica, la letteratura classica, ecc.); non gli manca assolutamente il lessico nei contesti che interessano a loro (relazioni, tecnologia, divertimento, ecc.). Sono secoli e secoli che ci raccontiamo questa storia della banalità delle generazioni successive alla propria. Ma dobbiamo renderci conto che è soprattutto una questione di percezione: i giovani si esprimono in un modo che noi, semplicemente, non possiamo capire completamente. E la distanza tra generazioni oggi è ancora più grande, probabilmente a causa della velocità di mutazione sociale provocata dalla tecnologia.
Sono perlopiù gli errori ortografici o qualche castroneria morfologica a suscitare a scuola le classiche risatine tra i compagni. Puntare il dito verso gli errori altrui non è mai però costruttivo, non trova? Cosa consiglia di fare quando questo avviene?
So che è difficile, ma io suggerisco di ammettere l’errore, se lo si è commesso, e di ignorare il resto. Una persona che dice serenamente “eh sì, ho sbagliato” stimola molto meno negli altri la voglia di fare i gradassi. E la prossima volta, stiamo più attenti!
Sfatiamo un pregiudizio: è vero che una professoressa o una linguista devono bandire le “parolacce” e ricorrere sempre a un registro elevato?
Per carità, sai che noia? Io penso che il potere più grande che si possa avere sia quello di muoversi liberamente tra tutti i contesti comunicativi che ci si possono presentare, senza remore e senza timori, ma con la sicurezza data dalla conoscenza; anzi, dalla conoscenza dei limiti della propria conoscenza.
«Dare dello scemo allo scemo è, in realtà, uno dei passatempi preferiti in rete, poiché permette di raccogliere facilmente il plauso dei fan». Come è meglio che reagisca un adolescente che si trova a essere “blastato” sui social?
A nessuno piace essere blastato, nemmeno a me. Lì per lì vorrei diventare cintura nera di risposta bruciante e sagace, ma poi, appena ci penso un attimo, riconosco che richiederebbe un grosso investimento di tempo e di risorse mentali che posso impiegare più proficuamente altrove. Io penso che il primo passo, quello per evitare di arrivare a essere blastati, sia di stare più attenti a cosa si scrive e a come si scrive in ogni occasione minimamente pubblica, compresi i social (lo dicevamo con Bruno Mastroianni nel nostro libro dell’anno scorso, Tienilo acceso: posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi). Quando invece, nonostante tutte le precauzioni, si viene blastati... i ragazzi dovrebbero ricordarsi che di solito la persona che sta peggio di tutte è proprio quella che fa il bullo: sai che divertimento dedicare la propria vita a fare l’antipatico con gli altri? Il miglior modo per sgonfiare un bullo è averne pena. Dopodiché, lasciarlo solo a urlare e agitarsi: dopo un po’ si annoia.
Concludiamo con una domanda non semplice che stiamo ponendo ai nostri ospiti della rubrica #SpecialeSCUOLA: in questi anni con i suoi libri si è trovata spesso a frequentare scuole, professori e ragazzi, per non parlare dell’esperienza in università come docente. Cosa cambierebbe della scuola di oggi? E cosa invece manterrebbe così com’è?
Nelle scuole io e Mastroianni abbiamo incontrato persone eroiche e illuminate così come docenti stanchi e demotivati. In generale, penso che sarebbe importante retribuire meglio gli insegnanti, perché insegnare non deve essere una vocazione samaritana, ma un mestiere di prestigio (perché di fatto lo è: forma la società del futuro, mica bruscolini); dopodiché, smetterei di investire sulla tecnologia in senso stretto (lavagne multimediali, tablet ecc., condannati a una obsolescenza velocissima) per investire sulla tecnologia della comunicazione: dobbiamo imparare, e insegnare, a vivere la complessità della società attuale; la scuola non deve rimanere fuori da questo discorso. Tendiamo a confondere il piano della competenza tecnica (e dell'evoluzione tecnica) con quello della competenza comunicativa (e dell'evoluzione della competenza comunicativa). Io penso che la scuola potrebbe (o dovrebbe) lavorare di più sulla competenza comunicativa. Insomma, se si sa comunicare bene, alla fin fine si sa comunicare bene sia online che offline.
Ringraziamo Vera Gheno e speriamo che il suo Potere alle parole venga letto da molti! Potete trovarlo anche qui: https://amzn.to/2HSpwnu
Intervista a cura di GMGhioni
Intervista a cura di GMGhioni